lunedì 20 agosto 2012
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Caro direttore,
io credo contrariamente a quasi tutti i lettori di Avvenire che il vero cristiano non debba interessarsi di politica per i seguenti motivi: 1) non c’è nulla di meno cristiano di un cristiano che fa politica; 2) un cristiano che fa politica commette un peccato molto grave perché usa Dio per cose di questo mondo; 3) per funzionare al meglio, la politica ha bisogno di politici senza pregiudizi e non di politici portatori di verità assolute o rivelate. Credo insomma che il perfetto politico non debba avere nessuna tendenza, nessuna posizione preconcetta o ideologica. Non deve essere buono e non deve essere cattivo. Deve essere solo saggio, che significa saper ascoltare tutte le opinioni, comprese quelle delle tante religioni che ormai ci sono anche in Italia. Se qualche cristiano pensa che il cristianesimo possa essere imposto a una popolazione con la forza delle leggi, allora significa che non ha letto il Vangelo oppure significa che è uno dei tanti azzeccagarbugli sedicenti cattolici che, dal dopoguerra sino ai giorno nostri, non hanno fatto onore alla politica e nemmeno alla religione che pretendevano di rappresentare
Giovanni Gaspari, Subiaco (Rm)
 
Facciamo un gioco, caro signor Gaspari: provi cioè a replicare il suo schema di ragionamento, ma applicandolo non alla categoria “cristiano”, bensì a quella “italiano” (o “europeo”). E sostituisca al concetto di “Dio”, quelli di “nazionalità” o cittadinanza”. Vedrà che bell’effetto. La sua lettera, però, non è giocosa. E lo dimostrano, proprio mentre ricordiamo a 58 anni dalla morte uno statista cristiano del calibro di Alcide De Gasperi, le battute sferzanti che riserva a coloro che, nell’Italia repubblicana hanno fatto politica da cattolici. In parte riesco a capirla, ma trovo che lei generalizzi troppo, sino all’ingenerosità. Sono assai di più infatti coloro che «dal dopoguerra sino ai giorni nostri», da cittadini e da credenti, hanno servito onestamente e coscienziosamente il Paese rispetto a quanti hanno disonorato se stessi e hanno usato cinicamente (e solo formalmente) il pubblico riferimento alla nostra fede e alla Dottrina sociale della Chiesa. Ma credo sia importante concentrarsi sul cuore della lettera che mi ha inviato, non sul suo finale.
 
Le dirò, allora, che sin da ragazzo continuo a farmi interrogare e ispirare da quel bellissimo testo cristiano che è la “Lettera a Diogneto” e in particolare, da un suo famoso passaggio in cui si sottolinea che i seguaci di Gesù «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera». Credo che in essa ci sia una risposta potente ad alcune delle sue preoccupazioni: soprattutto perché ci ricorda che un cristiano è chiamato a vivere la sua “cittadinanza” con una libertà di coscienza e una coerenza di vita almeno pari alla lealtà di fondo verso la comunità più grande a cui partecipa e un “senso del mondo” filiale e fraterno e mai esclusivamente proprietario. Le propongo perciò anche un passaggio – non caso riferito proprio a questo stesso testo – del discorso che Benedetto XVI ha rivolto il 7 maggio 2011 ai rappresentanti di un’assai importante porzione della Chiesa italiana: le 15 diocesi del Triveneto riunite per il Secondo convegno di Aquileia. «Siete chiamati a vivere – ha detto in quell’occasione il Papa – con quell’atteggiamento carico di fede che viene descritto dalla “Lettera a Diogneto”: non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli altri uomini con simpatia, comunicando nel vostro stesso stile di vita quell’umanesimo che affonda le sue radici nel cristianesimo, tesi a costruire assieme a tutti gli uomini di buona volontà una “città” più umana, più giusta e solidale». Questo per dirle che non sono d’accordo con lei su punti davvero cruciali. Sono, infatti, tra coloro che ritengono che quanti s’impegnano per la “polis”, la città, la cosa pubblica, cioè entrano nell’agone politico, non possano neanche limitarsi a non essere «cattivi», ma debbano essere decisamente «buoni» . Sono anche convinto, proprio come il Papa, che un cristiano al pari di ogni altra persona «di buona volontà» non possa rinunciare facendo politica alla propria cultura e alla conseguente visione dell’uomo e del mondo della quale è portatore. Altrimenti la presunta saggezza di un «ascolto» impersonale avrebbe al massimo la profondità di una eco, non certo quella del dialogo vivo e vitale e della convergenza motivata e utile. Altrimenti la dignità del servizio reso ai concittadini risulterebbe al massimo quella opaca, meccanica e assolutamente relativa di un foglio di carta assorbente. Povera cosa, davvero...
 
Fare politica da cristiani, insomma, si può. Rispettando tutti, ma non per dare ragione sempre e comunque a tutto e a tutti, non seguendo mode e derive, non arrendendosi alla dittatura di maggioranze opprimenti o di minoranze che si proclamano illuminate, ma per dare ragione della nostra speranza e condividere, appunto, la buona volontà e la buona ragione di altri che ci sono compagni d’umanità e di strada. Fare politica da cristiani, caro signor Gaspari, si deve. E più che mai in quest’Italia che cambia, vacilla, soffre e proprio con la politica ha bisogno di riconciliarsi.
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