mercoledì 5 febbraio 2025
Ursula von der Leyen sta provando a giocare la carta della fermezza. La ventilata apertura alla Cina resta una scommessa discutibile
Ursula von der Leyen

Ursula von der Leyen - ANSA

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Mantenere la calma in un mondo irascibile è un programma che da solo vale il prezzo del biglietto, soprattutto per chi non apprezza lo spettacolo dell’ipercinetico presidente degli Stati Uniti.

Ursula von der Leyen sta provando a giocare la carta della fermezza e della determinazione dietro al sorriso, con messaggi chiari che mirano però a non fare precipitare l’annunciata guerra dei dazi sull’asse transatlantico. Deve guadagnarsi in questo modo il favore di una platea che per ora sembra preferire gli effetti pirotecnici. Non vi sono infatti strategie da inventare: tutti gli esperti suggeriscono un approccio equilibrato, in cui l’Unione Europea mantenga la propria unità politica, rafforzi i meccanismi di difesa commerciale, diversifichi gli sbocchi su altri mercati e valuti con attenzione le ripercussioni di eventuali misure di ritorsione.

Facile a dirsi e molto più difficile a farsi, davanti a un mosaico di governi e sentimenti molto differenti verso la Casa Bianca, poco inclini a schierarsi compatti sulla linea proposta da Bruxelles. Forse per questo, ieri, la presidente della Commissione è parsa far balenare una mossa meno scontata e anche potenzialmente controversa: aperture alla Cina. Da leggersi come risposta indiretta alle tariffe che Donald Trump si appresterebbe a porre sull’export del Vecchio Continente verso gli Stati Uniti. In realtà, fino a lunedì si ragionava dietro le quinte di imprimere un’ulteriore stretta ai rapporti con il Dragone asiatico – dopo il freno all’importazione di auto elettriche – proprio per compiacere l’America e acquisire benemerenze.

Quindi, bisogna essere cauti nelle interpretazioni. In ogni caso, una partita a tre fra le grandi potenze economiche aprirebbe scenari inediti nei quali, probabilmente, i rischi e le conseguenze negative globali sarebbero maggiori dei benefici. Pechino ha mire imperiali quanto l’America rifatta grande dal tycoon repubblicano, il loro scontro potrebbe creare onde sismiche dirompenti.

Può la Ue, in questo quadro, giocare di sponda per cercare di mantenere il proprio spazio vitale? Ne risulterebbe un’operazione ardita, ma non è sbagliato rendere più complessa la realtà con cui Trump deve misurarsi.

La sua tattica, per quanto manifestato finora, è di puntare la pistola per primo e aspettare che l’avversario faccia qualche concessione, sicuro che la forza stia dalla sua parte e che nessuno avrà il coraggio di resistere o andare a vedere il bluff. Ha funzionato con la Colombia (affinché riprendesse gruppi di emigrati), con Messico e Canada (costretti a maggiori controlli alle frontiere).

Rispetto a Xi Jinping, il presidente Usa ha scelto un approccio di maggiore cautela, anche perché ha dovuto subire un colpo preventivo con il boom di DeepSeek, l’azienda che ha conquistato il pubblico americano con la sua intelligenza artificiale generativa gratuita e realizzata (pare) a poco prezzo, capace di fare crollare in Borsa i giganti della Silicon Valley. La partita a Oriente sarà lunga e combattuta.

Dall’altra parte del mondo, se quello con Elon Musk è un gioco delle parti, la nuova Amministrazione americana sta tentando di spaccare la compattezza europea con la propaganda in favore dei vari nazionalismi affidata all’imprenditore miliardario e imprevedibile, per poi trarne vantaggio nella sfida con un fronte indebolito dei 27 quando si arriverà a trattare.

Per limitare la guerra commerciale, Trump potrà chiedere meno vincoli per la sua offerta di servizi digitali, maggiori contributi alla Nato e investimenti per la Difesa con armi Made in Usa, più acquisti di energia prodotta dall’America che non si cura troppo dell’ambiente. Mandare “ambasciatori”, per quanto convincenti, o sperare nella benevolenza del nuovo capo della Casa Bianca è al massimo una linea difensiva per contenere i danni.

Servono invece, ora più che mai, sangue freddo e la robustezza di un gigante economico e politico quale l’Unione ancora è, consapevole che solo la coesione di tutti può evitare che i singoli Stati siano schiacciati dalla disparità di peso con l’alleato (è questo il paradosso) dall’altra parte dell’oceano. Ipotizzare di avvicinarsi di più alla Cina e allontanarsi dagli Stati Uniti resta una scommessa discutibile, considerando l’alleanza di Pechino con la Russia – che strangola l’Ucraina –, la sua penetrazione aggressiva in numerosi Paesi e l’enorme distanza tra la nostra idea di democrazia e il controllo ferreo esercitato dal Partito comunista sulla società.

Abbiamo rigettato gli accordi della Via della Seta (anche su pressione statunitense), possiamo adesso tentare intese più paritarie e meglio congegnate? Oggi, forse, basta mandare un segnale a Washington: non accettiamo uno sciocco duello di cowboy, in cui per tenere il punto si accetta di farsi molto male. Le relazioni internazionali sono – e devono essere – molto diverse dal Far West, e l’Europa ha il compito di difendere questa prospettiva, ben al di là della disputa sui dazi.

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