Fai pace se vuoi pace
sabato 12 maggio 2018

Che cos’è oggi l’Iran, e qual è la strada più opportuna da seguire, quella della chiusura totale di Washington, quella della deterrenza militare di Israele o quella della diplomazia che l’Europa cerca con forza di mantenere viva? Posto al crocevia della crisi che da sette anni travaglia il Medio Oriente, il Paese degli ayatollah ha troppi aspetti, troppe contraddittorie sfaccettature perché possa essere racchiuso e definito in un’unica formula. C’è – per cominciare – il volto della nazione sciita impegnata nel duello millenario con la confessione sunnita, come c’è il volto di un Paese incapace di rinunciare alla pluridecennale battaglia contro Israele, culminata in questi giorni con l’aperta offensiva alle pendici del Golan siriano da parte – si suppone, ma senza certezze – della Forza al-Quds, la brigata di Guardiani della rivoluzione comandata dal generale Qasem Soleimani, lo stratega di Teheran responsabile di tutte le operazioni militari fuori dai confini del Paese. Ma c’è anche il volto politicamente più remunerativo del grande destabilizzatore, ideatore di quel “corridoio sciita”, un tracciato serpentino che unisce l’antica Persia alle spiagge alauite siriane passando per Baghdad, Deir ez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia, garantendo a Teheran una fascia di controllo che taglia in due la vecchia carta mediorientale addensando tre eserciti a disposizione delle ambizioni iraniane, 100mila miliziani in Iraq, 10mila hezbollah e 50mila fra iracheni e afghani in Siria e altre migliaia con Hamas a Gaza, cui dovremmo aggiungere gli Houthi dello Yemen.
In altri tempi si sarebbe definito l’Iran uno Stato imperialista, non meno del Grande Satana americano (come lo chiamava l’ayatollah Khomeini), del defunto impero ottomano o dell’Unione Sovietica prima del crollo del Muro. Ma Teheran fa anche parte anche di quel malassortito triangolo costituito insieme a Mosca e Ankara che ha dominato – e sostanzialmente vinto – la campagna di Siria consentendo alla Russia di Putin (che forse ora sta considerando che l’alleanza con Teheran – se pure utile sul piano degli affari – gli è meno gradita di un tempo) il vantaggio più rilevante con il ritorno in forze nei mari caldi e il ripristino della perduta influenza in Medio Oriente.
Il ritiro unilaterale proclamato da Donald Trump dall’accordo sul nucleare iraniano, la recente rappresaglia in territorio siriano per il presunto uso di armi chimiche e l’annunciato spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme completano un quadro in cui più che la diplomazia sembra aver contato fin qui esclusivamente la forza.

Si pace frui volumus, bellum gerendum est, ammoniva Cicerone nella settima filippica contro Marco Antonio, e da quella remota orazione (riducibile nella formula: «se aspiri alla pace prepara la guerra») si è ricavata la convinzione che sia saggio affilare eternamente le armi per evitare di doverle usare. Il che verosimilmente ha funzionato con la deterrenza nucleare al tempo della Guerra fredda, ma oggi è più che altro una pericolosa scorciatoia verso l’ignoto.

Se n’è accorta – bontà sua, dopo lunghe esitazioni e silenzi – anche l’Europa, decisamente avversa al ripristino delle sanzioni contro l’Iran e ancor più contraria alla denuncia dell’accordo del 2015 sul nucleare. «Siamo pronti a parlare e a trattare, ma se necessario anche a litigare per le nostre posizioni», ha fatto sapere il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas facendo eco a Federica Mogherini, che giusto ieri ha annunciato per martedì prossimo a Bruxelles una riunione con i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito e successivamente con Teheran. «Abbiamo la responsabilità e il dovere di fare tutto quello che possiamo, e possiamo fare molto, per difendere l’accordo con l’Iran – detto l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri Ue –: qualsiasi problema con l’Iran può essere affrontato, ma solo sulla base della piena attuazione di quello che abbiamo già». Messaggio più che esplicito al “bullismo” (sono parole sue) di Donald Trump. Ma anche alla ben nota ambiguità del regime, pronto a riprendere l’arricchimento dell’uranio su scala industriale. Una strada comunque, quella dialogo, che è l’unica davvero perseguibile.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: