Facciamo per le campagne ciò che ora si fa per le città
giovedì 23 dicembre 2021

Vediamo ovunque le ferite della Terra, così è quando camminiamo, andiamo in bicicletta, in moto o in auto, oppure quando voliamo e abbiamo ampie vedute aeree. Diverse le dimensioni delle cose, identico però lo sconforto e il pianto. Alle città espanse, con forte concentrazione abitativa e industriale, corrispondono luoghi spesso abbandonati, spopolati, inselvatichiti. Tuttavia, se facciamo uno sforzo, possiamo sperare di guardare il mondo in un percorso contrario: di fronte alla rapacità edilizia che si estende enormemente a danno della campagna, riusciamo a opporre un disegno di rinaturalizzazione dei terreni incolti e degradati.

Perché insieme, istituzioni e cittadini, non provano a creare vie giardino, vie orti, sentieri naturali che tornano verso la città in uno splendore di alberi, piante, fiori? Perché non fare arterie di bellezze vegetali per entrare e uscire dalla struttura urbana? Per migliorare l’aria, il clima, il regime d’equilibrio biologico, il sistema visivo di ciò che ci circonda. Un modo, questo, che consente anche di evitare che in quel degrado, su resti di mura e cemento, s’installi la mania illustrativa dei writers, che non sono tutti pittori, e danno un esempio assai poco formativo se si vuole affermare la dignità del vedere, del sentire, del vivere eticamente ed esteticamente le forme del paesaggio, umano e vegetale. Come fare? Con un piano di finanziamenti simili a quelli adottati dal governo per l’edilizia cittadina. Non si tratta tanto di ricucire vuoti o strappi, come fa e certo lo fa bene, con le sue ricerche, Renzo Piano, ma di rifare soprattutto l’intero tessuto del territorio, palmo a palmo, con un’abile sartoria d’interventi mirati. Casomai è l’idea del patchwork che dobbiamo inseguire, con bravi sarti per quest’operazione delicatissima. Offriremmo allora un piano di ricomposizione per fissare un rapporto equilibrato tra natura e architettura, nel proposito costante di un ritorno ad abitare e lavorare quei luoghi caduti in disgrazia. Questa tipologia d’intervento contempla, nel suo complesso, al suo interno, vari altri elementi già messi a punto e consacrati, salvaguardati, come i paesaggi rurali storici, gli alberi monumentali, i giardini storici, i borghi antichi, le chiese abbandonate. Ma in tale contesto dovremmo percepire prioritaria l’immagine dell’architettura rurale di cui abbiamo ovunque moltissimi esempi appena ci muoviamo ai bordi e fuori delle città, come tra le città.

Un’architettura 'minore', ma non per questo inferiore all’altra d’eccellenza, dei palazzi e delle ville: un’architettura che ha concentrato e concentra storicamente su di sé il senso dell’economia di quei luoghi nel corso dei secoli, un’economia povera e di sussistenza. Restaurare gli infiniti esempi d’edificazione rurale spinge a riprendere, per un principio di relazione, i lavori di attività agricole e boschive che vi stavano attorno, muovendo un ripristino e un rinnovamento delle tecniche tradizionali. Architettura e natura dialogherebbero così fruttuosamente per una ripresa dell’umano abitare, operare e vivere. Se lo Stato intervenisse come sta intervenendo nelle città con i vari bonus per il decoro delle facciate delle case, ne avremmo un grande vantaggio. La sartoria del patchwork del territorio, intesa come risorsa poietica, del fare e del fare bene le cose, farebbe risorgere le sorti del paesaggio e dell’ambiente che ora giacciono in una condizione di sfrangiamento mostruoso, dissennato, e ciò attirerebbe anche risorse economiche per tanti giovani che potrebbero trovare casa e lavoro su uno spettro di positive destinazioni.

L’arte delle coltivazioni, che compone l’arte del paesaggio, si congiunge all’arte semplice e povera del costruire, in una congenialità storica e culturale. Nobilitare l’architettura rurale implica il nobilitare l’arte dell’agricoltura in generale. L’arte e il bene della terra proseguono il discorso doppio del Patrimonio ora riconosciuto dall’articolo 9 della Costituzione in un disegno altamente umano nel quale persone e comunità si possano a loro volta riconoscere. L’aura del luogo che percepiamo nel nostro passeggiare, muoverci e lavorare pone infatti l’antica cura che l’umanità, da Aristotele a san Tommaso fino a Mikel Dufrenne nel secolo scorso, ha nei confronti della natura. Affinché si facciano luoghi del buon vivere e abitare, del fare e del contemplare, in modo da essere noi stessi, affettivamente, con giusta passione, protagonisti di una natura operante.

Direttore del Laboratorio di ricerca sulle città e i paesaggi, Università di Bologna

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