martedì 1 marzo 2011
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Ancora una volta dobbiamo piangere un caduto, l’ennesimo, in Afghanistan, e pregare per gli altri militari feriti. Come dopo ogni attacco, i nostri sentimenti sono quelli del dolore per le perdite umane; di frustrazione, perché la missione in quel Paese ci sembra una spirale di lutti senza fine; di rabbia, perché il tenente Massimo Ranzani è stato ucciso in una missione di assistenza umanitaria alla popolazione locale; di preoccupazione, dato che il numero degli attacchi con gli Ied – gli ordigni piazzati al ciglio delle strade – risultano in costante aumento (nel 2010 sono aumentati del 60 per cento rispetto al 2009). Ma questi sentimenti – per quanto spontanei e perfino doverosi – non possono rappresentare l’unico strumento di valutazione della nostra missione in Afghanistan. Oggi più che mai è importante analizzare lucidamente l’andamento del conflitto, con una riflessione non concentrata solo sui singoli eventi, ma capace di valutarne l’evoluzione e le prospettive future. Cosa, in realtà, non facile: più passa il tempo e più questa guerra fra le aspre montagne dell’Asia centrale ci sembra un gioco d’ombre e d’illusioni, ove è impossibile distinguere fra fatti concreti e reali e speranze sempre deluse. Lo si è detto un numero infinito di volte: la Nato e la comunità internazionale, in questo decennio, hanno commesso un numero enorme di errori e di leggerezze. E non vi è dubbio che i sogni e gli ambiziosi obiettivi seguiti all’abbattimento dei taleban di fine del 2001 siano ormai svaniti. Ma quello che ci si deve chiedere oggi è se anche gli obiettivi minimi che ci siamo posti siano raggiungibili. Nessuno in Occidente pensa realisticamente di vincere completamente questa guerra contro un nemico tanto caparbio quanto elusivo, tanto cinico quanto flessibile. Ma lo scopo delle grandi offensive lanciate nel 2009 dalla Nato – che hanno chiesto un costo purtroppo elevato in termini di soldati perduti, il più alto dall’inizio delle operazioni – è stato quello di far arretrare i taleban, renderli meno sicuri, rafforzando nel contempo il governo di Kabul. L’obiettivo finale è un ritiro dal Paese che non suoni resa, lasciando sul posto un governo stabile e delle forze armate nazionali capaci di garantire un livello decoroso di sicurezza. È stato raggiunto tutto ciò? La primavera ci porterà alcune risposte. Sarà decisivo vedere se, come ogni anno, i taleban saranno ancora in grado di lanciare attacchi coordinati che costringano le forze Nato sotto egida Onu alla difensiva o se i villaggi e i distretti "liberati" dalla presenza delle milizie islamiche estremiste resteranno tali. Al quartier generale internazionale a Kabul, c’è un moderato ed estremamente cauto ottimismo. Pur con tutte le note negative, si spera di poter rafforzare il dispositivo militare dell’Alleanza nel 2011 e contare su una maggior efficienza delle truppe afghane. Si confida anche che i miglioramenti tattici e tecnologici riducano anche il numero di vittime degli attacchi Ied. Ma tutto ciò rischia di esser inutile se non vi sarà un miglioramento delle capacità di azione politica e un capovolgimento d’immagine del corrotto e inefficiente governo del presidente Hamid Karzai, e ancor più se si radicherà nelle opinioni pubbliche occidentali l’idea che i nostri sforzi sono vani. Il primo problema – la scarsa credibilità del governo centrale – è un ostacolo spaventoso per il rafforzamento del "fronte interno" e un serio limite alla capacità di attirare i taleban meno ideologizzati e farli uscire dalle file della guerriglia. Il secondo – le opinioni pubbliche – rischia di provocare uno "smottamento" nei Paesi dell’Alleanza che partecipano alla missione in Afghanistan. E cedere ora, dopo un decennio di sangue e fatiche, sottrarrebbe ancor più il senso a queste morti.
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