giovedì 19 agosto 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Sono diventate bersaglio di facili ironie le ultime dichiarazioni di Obama sul controverso progetto di una moschea nei pressi di "Ground Zero". Eppure il leader della Casa Bianca ha espresso due semplici verità che forse avrebbe fatto meglio a formulare all’interno di un unico ragionamento invece che a pezzi e bocconi, dando l’impressione di contraddirsi.  Se è vero infatti che, in base al sacrosanto principio della libertà religiosa, ognuno ha il diritto di costruire un luogo di culto, è altrettanto innegabile che esiste un criterio di "saggezza", come ha detto Obama, vale a dire una questione di opportunità. Qui nasce il problema che tocca le corde più profonde e sensibili di un’intera società, colpita al cuore dall’attentato folle e mostruoso dell’11 settembre. Come guarire questa terribile ferita?  D’accordo, occorre combattere l’identificazione tra islam e terrorismo ed evitare lo scontro di civiltà. Ma siamo sicuri che simili obiettivi si possano raggiungere costruendo un luogo di riflessione e di preghiera per i musulmani nelle vicinanze del buco nero dove sorgevano le Torri gemelle abbattute dai terroristi islamici? Non bastano le buone intenzioni, anzi spesso ottengono l’effetto contrario. Da quando si è cominciato a parlare della "moschea di Ground Zero" come di un coraggioso tributo alla riconciliazione tra le fedi, sono riesplosi negli Stati Uniti furiosi sentimenti anti-islamici. Il rischio è di trasformare in un campo di battaglia religioso e politico quel che invece dovrebbe essere un luogo di dolore condiviso. Se i promotori della discussa iniziativa vogliono davvero contribuire al dialogo religioso ed alla convivenza civile, si rivolgano prima di tutto ai familiari delle vittime dell’11 settembre e all’opinione pubblica americana chiedendo perdono per l’orrendo gesto compiuto da fanatici in nome dell’islam. Poi prendano una decisione, non in base a degli astratti ideali di riconciliazione ma tenendo conto della sensibilità di chi è stato colpito. C’è un solo criterio decisivo per affrontare la questione: è il punto di vista delle vittime. L’ho appreso personalmente quando tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta seguii in Polonia la disputa sul Carmelo ad Auschwitz, una vicenda che ha molte somiglianze con l’attuale controversia americana. Sono sempre stato convinto che le carmelitane avevano tutto il diritto di restare nel convento che sorgeva a fianco del campo di concentramento, nell’ex fabbrica del micidiale Zyklon-B. Non facevano del male a nessuno, anzi la loro presenza era un ininterrotto gesto d’amore e di pietà per i milioni di ebrei uccisi nelle camere a gas dei nazisti. Tra l’altro erano lì a ricordare che ad Auschwitz avevano trovato la morte anche decine di migliaia di cattolici polacchi (così come nell’attentato dell’11 settembre perirono anche molti cittadini americani di religione islamica). La loro era una gratuita carezza di bontà nel luogo dell’orrore. Il fatto è che gli ebrei non l’apprezzavano, anzi la consideravano un’intrusione, un insulto alla memoria dell’Olocausto. Fu Giovanni Paolo II, il Papa polacco amico degli ebrei, a spegnere sul nascere il pericoloso incendio di una nuova guerra di religione decretando lo spostamento del Carmelo. Con una lettera molto commovente si rivolse alle carmelitane di Auschwitz invitandole al più grande gesto d’amore, quello che s’accompagna al sacrificio. La decisione, segno di grande rispetto per la sensibilità delle vittime, si è rivelata feconda: oggi ad Auschwitz ci sono un luogo per la preghiera ed un centro per la riconciliazione tra ebrei e cristiani. E poco importa che sorgano non a ridosso del lager ma un po’ più lontano. I musulmani che intendono costruire una moschea vicino a Ground Zero ne prendano esempio: rinuncino alla loro pretesa, facciano due passi indietro da Manhattan per predicare l’islam non violento e condannare con fermezza i terroristi di Al Qaeda. Un cuore contrito vale più di tante discussioni.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: