sabato 16 ottobre 2010
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C'è chi parla apertamente del rischio d’estinzione. All’inizio del secolo scorso in tutto il Medio Oriente i cristiani erano circa il 20 %. Oggi sono poco più del 4%, mentre i cattolici sono meno del 2%. Di questo passo, nel giro di cinquant’anni, la loro presenza nelle terre dove ha predicato Gesù e dove sono nate le prime comunità di fedeli sarà poco più che simbolica. Se n’è preso tristemente atto al Sinodo sul Medio Oriente che si tiene in questi giorni in Vaticano. È un fatto: buona parte dei cristiani di questa vasta regione che va dall’Egitto all’Iran vive ormai in Occidente. Oggi ci sono più cattolici palestinesi a Buenos Aires che non a Betlemme, più cristiani caldei a Detroit che non a Mosul. Se ne vanno per sfuggire alla crisi economica, al caos sociale, alle discriminazioni civili e politiche che spesso assumono un vero e proprio carattere persecutorio. Circondati da un clima ostile e minaccioso scelgono la via dell’emigrazione. C’è un futuro per il cristianesimo nella sua terra d’origine? Oppure, come ha detto con toni allarmati il patriarca melkita di Antiochia Gregorios III Laham, «la prospettiva è quella di una società araba di un solo colore, unicamente musulmana, di fronte ad una società europea detta cristiana»? Si parla spesso di «islamofobia», una sindrome che ha colpito l’Occidente dopo l’11 settembre, la sensazione di vivere sotto costante minaccia del terrorismo pianificato dai fondamentalisti musulmani. Ma tutte le statistiche fornite da varie organizzazioni, dall’Osce al Dipartimento di Stato americano, da "Aiuto alla Chiesa che soffre” a “Human Right World Watch”, mostrano che in cima alla classifica delle discriminazioni e delle persecuzioni ci sono i cristiani. Cosa fare contro la «cristianofobia», la nuova e terribile sindrome che sta contagiando soprattutto i Paesi islamici? La questione non riguarda solo le Chiese, ma tocca le fondamenta stesse della convivenza civile in quanto mette in discussione il principio della libertà religiosa che, come ricordava Giovanni Paolo II, «è la cartina di tornasole di tutti i diritti». Una risoluzione di condanna degli atti di violenza contro le minoranze religiose è già stata votata dall’Europarlamento nel 2007 in seguito alle persecuzioni anticristiane in varie parti del mondo. Ieri, al Sinodo sul Medio Oriente, è stata lanciata l’idea di una risoluzione Onu che ribadisca il concetto secondo cui «la libertà religiosa autentica include la libertà di predicare e convertire». Per l’autore della proposta, il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, un simile testo dovrebbe sostituire la risoluzione sulla “Diffamazione delle religioni” avanzata alle Nazioni Unite dai rappresentanti degli Stati islamici. È questo il punto cruciale: il mondo musulmano infatti guarda con diffidenza al concetto della libertà religiosa, considerata l’anticamera dell’indifferentismo e una minaccia alla stabilità dello Stato islamico. Da qui l’importanza di quella «laicità positiva», richiamata continuamente da Benedetto XVI, che riconosce la separazione fra Stato e Chiesa affermando al tempo stesso il ruolo fondamentale dell’esperienza religiosa come contributo essenziale al bene comune. Un chiaro esempio ci viene proprio dal Medio Oriente dove storicamente la comunità dei cristiani è stata una risorsa culturale ed educativa che è andata a vantaggio dell’intera società e degli stessi musulmani. Come ha riconosciuto il consigliere del Gran Muftì del Libano, «conservare questa presenza è un dovere non solo dei cristiani ma anche di noi islamici». Una breccia nel muro dell’intolleranza che spalanca a un Medio Oriente dove i cristiani si sentono nuovamente a casa propria.
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