sabato 23 ottobre 2010
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A parlare per primo di «guerra delle monete» è stato il ministro brasiliano delle Finanze Guido Mantega, rompendo un omertoso silenzio su quanto sta avvenendo sui mercati finanziari. Il dollaro americano in caduta libera a braccetto dello yuan cinese, quasi si trattasse di fratelli gemelli, mentre in realtà siamo a fratelli-coltelli; lo yen giapponese e l’euro che, in compagnia del piccolo ma sempre prestigioso franco svizzero, continuano a rafforzarsi. In base ai postulati dell’economia classica, verrebbe da concludere: moneta forte specchio di un’economia robusta e sana. Invece, in epoca di globalizzazione dei commerci, non è così. Detto altrimenti, i rapporti di cambio fra le valute del Pianeta, anziché assicurare stabilità, se mutano all’insù o all’ingiù, in maniera prossima all’isteria, portano al caos monetario. Perché? L’armonia (anche se artificiosa) fra le monete presenti sullo scacchiere mondiale era il frutto di equilibri nati da una congiuntura economico-finanziaria favorevole. Spazzata via dalla crisi esplosa nel 2008, e ben lungi dall’essere superata, nonostante i molteplici organismi internazionali (dal Fondo monetario alla Banca centrale europea) si sforzino nel diffondere bollettini ottimistici. Di conseguenza, ogni area monetaria è portata con egoismo a chiudersi in se stessa. Come? Nella maniera più semplice, collaudata da secoli: svalutare per penalizzare le importazioni di merci e favorire le esportazioni delle proprie industrie. Questo è ciò che stanno facendo gli Usa, lasciando scivolare il dollaro. Nonostante Ben Bernanke, boss della Federal Reserve, spergiuri il contrario, puntando il dito contro il solito, inafferrabile fantasma della speculazione. Dovremmo invece ammetterlo, alla maniera dell’onesto brasiliano Mantega, che è «guerra delle monete», con due gladiatori a fronteggiarsi. Usa e Cina. L’America con un’economia che arranca, Pechino che scoppia di salute. Gli ultimi dati mostrando uno spettacolare +9,6 per cento rispetto allo scorso anno. Per merito dell’inarrestabile boom dell’export, dalla duplice leva: il basso costo del lavoro e l’ormai indifendibile cambio dollaro-yuan. Sennonché i cinesi, è il caso di dirlo, fanno orecchie da mercante. Non mollano la gallina dalle uova d’oro (gli Usa sono il principale mercato di sbocco), e hanno pure il coltello per il manico, poiché le banche cinesi detengono un’altissima quota del debito pubblico statunitense. Da qui, un duello pericolosissimo, con risvolti troppo lungo sottaciuti: la Cina controlla la produzione di minerali strategici dai nomi strani (europio, neodimio), la cui estrazione era stata abbandonata dagli Usa per i costi eccessivi. Lo scontro Pechino-Washington rischia di sconvolgere la geografia planetaria, riducendo e penalizzando l’influenza delle altre aree monetarie. Con il Giappone che fatica sempre di più a esportare; e lo stesso può dirsi per la galassia di Eurolandia. Tuttavia, non mancano le eccezioni. Nel Vecchio Continente, la Germania marcia a pieno ritmo. Idem per la Svizzera. Motivo: tecnologie d’avanguardia che non temono concorrenza. Lo stesso non vale per Francia, Italia, Spagna; patiscono una sopravvalutazione dell’euro non giustificata da alcun parametro di maggiore efficienza o capacità competitiva. Un gap talvolta alleviato col trasferimento degli stabilimenti nei Balcani. Alcuni osservatori rievocano un fenomeno di analoga e tragica portata, gravido di conseguenze, verificatosi nella grande crisi del 1929, con arroccamenti nazionalistici e politici. Forse non siamo a questo punto, ma le rivolte francesi dovrebbero far riflettere. In ogni caso, Banca centrale europea e Parlamento di Strasburgo hanno il dovere di uscire dall’irenismo. La guerra delle monete Usa-Cina può avere terribili conseguenze sull’occupazione. Sul reddito delle famiglie. E sul nostro domani. L’Europa, se c’è, batta dunque un colpo, si faccia sentire, senza timori reverenziali per la Germania della signora Merkel, che pensa di farcela da sola.
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