giovedì 16 giugno 2011
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La folla di ateniesi che circonda il Parlamento e occupa la storica piazza Syntagma mentre all’interno i deputati discutono sui tagli alla spesa pubblica per 28 miliardi di euro decisi dall’esecutivo socialista di George Papandreou – pronto peraltro a offrire le proprie dimissioni o a varare un governo di unità nazionale per far fronte alla crisi – è il ritratto più vivido e realistico di una Grecia in cerca di una via d’uscita, che non sa e non trova la formula magica per sfuggire alla bancarotta dello Stato senza passare per il tumulto della piazza. Indifferenti nel loro spietato rincorrere un’impossibile purezza contabile, le tre Parche del rating (l’ultima in ordine di tempo è stata Standard & Poor’s) declassano sistematicamente ogni cespite declassabile nelle disastrate finanze elleniche, portandolo a quel "CCC" che è il marchio rovente dell’inaffidabilità, la lettera scarlatta della colpa, l’ostrakon che indirizza l’individuo indegno verso l’esilio.Al capezzale della Grecia febbricitante si addensano i dottori del Fondo Monetario Internazionale, i tecnici della Bce, i preoccupati ministri dell’Economia della Ue, indecisi – come già nella peste di Atene raccontata da Lucrezio – sulle terapie da adottare: l’"iniziativa di Vienna" (ovvero il rinnovo volontario degli investitori privati dei titoli di stato ellenici in scadenza), il riscadenziamento del debito associato a uno scambio obbligazionario (ipotesi cara alla Germania, che tuttavia la Bce considera come una sorta di default sovrano, una bancarotta mascherata) o addirittura una ristrutturazione del debito ellenico (il che significa un default alla luce del sole, con imprevedibili effetti di contagio sugli altri Paesi deboli dell’eurozona, come Spagna, Portogallo e Irlanda e forse il Belgio).Che fare, dunque? Forse è più facile dire cosa non fare assolutamente, e in questo è stato chiarissimo il candidato unico alla presidenza della Bce Mario Draghi: «La Grecia – ha detto durante l’audizione di fronte all’Europarlamento – non deve andare in default e qualsiasi ristrutturazione non volontaria sarebbe una manna per quella speculazione che non aspetta altro per sfruttare la contingenza». Ma Draghi ha spiegato anche – cosa forse ancora più importante – che la Grecia ce la può fare: l’Italia dei primi anni ’90, ha ricordato, stava molto peggio, con un’esposizione 10 volte superiore a quella ellenica e la necessità di collocare ogni mese titoli in quantità tre volte superiore a quella di Atene.Il governatore di Bankitalia ha ragione. Perché il male oscuro della Grecia si annida soprattutto all’interno del suo corpo sociale, fra le pieghe di una nazione entrata trionfalmente in Europa nel 1981 senza averne realmente tutti i requisiti, dove l’Iva è da sempre considerata una bizzarria per pochi maniaci, le regole comunitarie sono poco più che un inascoltato breviario di buone maniere e il vizietto di truccare i conti pubblici (di quelli privati non parliamone) è uno sport nazionale, secondo soltanto a quella sghemba versione del welfare che ha consentito all’impiego pubblico un’elefantiaca espansione in termini di numeri e di spesa.Oggi questi nodi vengono al pettine e si reclamano austerità, sacrifici, perdita di posti di lavoro, tagli agli stipendi e alle pensioni. Tutte cose davanti alle quali il popolo greco, tradito nell’illusione a lungo coltivata di appartenere al club delle ricche nazioni europee senza pagarne il prezzo, ora scalpita – e come non comprenderlo? – tentando di sfuggire al sacrificio come il toro di Laocoonte, dopo essere stato narcotizzato per trent’anni da un fittizio benessere che i socialisti del Pasok (con una breve ma per nulla dissimile parentesi dei conservatori di Nea Demokratia) avevano barattato con il consenso elettorale.Ma la Grecia può farcela. Anzi, deve farcela, quale che sia la medicina da somministrare. Sta a noi europei, ai leader greci, a coloro cui sta ancora a cuore il bene comune far sì che sia la meno amara possibile per milioni di cittadini.
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