Donne, Olimpiadi e giuste virtù civili. Segnali deboli (e scomodi)
domenica 1 agosto 2021

Dal cuore del grande spettacolo delle Olimpiadi stanno emergendo alcuni segnali deboli eppure importanti, provenienti soprattutto dalle atlete. La crisi di Simone Biles, le tute integrali delle ginnaste tedesche per protestare contro la sessualizzazione del corpo femminile, che fanno seguito alla multa nei recenti campionati europei delle giocatrici norvegesi di pallamano da spiaggia per aver indossato pantaloncini al posto dei bikini, sono tutti fatti da prendere molto sul serio.

È innegabile che le Olimpiadi, e in generale il mondo dello sport, sia pensato da maschi per maschi. Le donne sono state ospitate e si sono adattate. Se si eccettuano la ginnastica, il nuoto sincronizzato e pochissimo altro, le gare femminili sono repliche di quelle maschili, eseguite con una efficienza quantitativa inferiore del 10-15%. Fanno tutti e tutte le stesse cose, ma le donne le fanno un po’ più piano, con ostacoli più bassi, saltano e sollevano un po’ meno, lanciano sfere metalliche e giavellotti meno pesanti. La competizione, l’anima dello sport, è disegnata sul paradigma maschile, come se il competere fosse vissuto allo stesso modo dai maschi e dalle femmine.

Nelle Olimpiadi, nonostante l’auspicio fondativo di De Coubertin, la dimensione competitiva e posizionale è esasperata. Basti pensare alla logica del medagliere. Ha un ordine assolutamente lessicografico: una nazione può vincere cento medaglie, ma se ha vinto solo argento e bronzo sarà sempre dietro ad un’altra che ha vinto una sola medaglia ma d’oro. Una misurazione analoga alla dittatura del Pil (tra l’altro, le prime venti nazioni del medagliere non differiscono molto dal G20).

Dalla ricerca sappiamo che le donne, in media, hanno un rapporto diverso con la competizione. Alcuni esperimenti hanno mostrato che quando per accedere a un livello più alto di remunerazione occorre passare attraverso un torneo, le donne molto più degli uomini rinunciano a quell’aumento di stipendio (Vittorio Pelligra, "L’economia alle prese con la questione di genere", Lavoce.info). Le donne mostrano una maggiore avversione per il rischio, e, soprattutto, una maggiore avversione per la diseguaglianza, che le portano a preferire assetti più simmetrici ("Gender differences in social risk taking", Journal of Economic Psychology). Le ragazze poi tendono più dei ragazzi a empatizzare con i non-vincenti, a preferire l’allineamento delle emozioni con le altre atlete, sono più sensibili alle lacrime di chi perde. Sarà cultura, sarà natura, ma i dati dicono questo. L’esperienza soggettiva del gareggiare e del competere non può essere la stessa, non è la stessa.

Per non parlare della natura delle diverse discipline, concepite quasi sempre come evoluzione e sublimazione delle tradizionali attività maschili, e non di rado di carattere militare: cacciare, lottare, sparare, nuotare, pugilare, lanciare, tirare di scherma...
C’è poi l’immenso tema del corpo e della corporeità, che non riguarda solo (anche) il sesso e le molestie. Il corpo femminile non è quello maschile, non risponde allo stesso modo tutti i giorni del mese, la gestione delle emozioni e l’intelligenza affettiva sono diverse (lo vediamo anche nelle lacrime e negli abbracci che non finiscono più). Questo discorso aprirebbe un capitolo specifico sulle Paraolimpiadi, ma non lo facciamo.

Nessuno nega che lo sport d’eccellenza contenga e promuova importantissime virtù: la tenacia, la perseveranza, il sacrificio, la fortezza, la ricerca dell’eccellenza, la lealtà, il coraggio, la gestione della sconfitta, la premiazione del merito, il rispetto dell’avversario e delle regole, il rapporto tra impegno e risultati, il principio di realtà…

Tutte virtù che è bene che dallo sport contamino la vita civile. In particolare, una sua grande virtù è la coesistenza di cooperazione e competizione: un atleta che non ha buoni avversari non cresce e il movimento nel suo insieme non evolve. La presenza di concorrenti forti che al singolo atleta può apparire come vincolo e costo, vista da fuori e dall’alto è invece bene comune. In altre parole, la competizione è un sottogioco non-cooperativo di un più grande gioco cooperativo. Le Olimpiadi sono importanti anche perché rafforzano queste virtù in tutti.

Ma è proprio qui che si nasconde l’insidia. Quando pensiamo che tutte le virtù dello sport siano immediatamente virtù civili ed economiche. Perché non è vero che lo sport è sempre buona metafora della vita. A volte e in certi ambiti è cattiva metafora. La logica fondamentale dello sport è il gioco a somma zero: alla vincita di uno corrisponde la sconfitta dell’altro (meno uno; più uno), e anche quando si coopera all’interno di un team lo si fa per vincere contro un altro. Non sarebbe appassionante quello sport che finisse sempre con pareggi. Ma, grazie a Dio, la vita economica, civile, familiare non funziona così. Qui i giochi sono quasi sempre a somma positiva (più uno, più uno). Nella vita civile, nella famiglia, nelle comunità, nelle istituzioni, nel mercato non c’è uno che piange di gioia mentre l’altro piange di tristezza. La vita civile è una fitta rete di relazioni di mutuo vantaggio, dove tutti crescono insieme; e se e quando diventa come lo sport, la società civile si ammala, il mercato diventa sistema predatorio.

Allora il rischio di una società sempre più agonistica come la nostra è iniziare a leggere anche il mercato e la società civile come lo sport. Quindi a formare i giovani, i dirigenti e gli imprenditori alle virtù sportive individuali, antagoniste e magari guerriere. Una società sempre più economica e competitiva trova nello sport il suo perfetto alleato, e viceversa. Dimenticando che le prime virtù per riuscire bene nella vita civile ed economica, sono le virtù cooperative, quindi quelle "gentili" della mitezza, dell’umiltà, della simpatia, della cura, del limite, della misericordia, dell’arte dell’azione collettiva – lo vediamo anche in questa pandemia. Virtù poco guerriere e antagonistiche, più femminili e relazionali.

Facciamo festa con le nostre atlete e i nostri atleti, gioiamo per le loro medaglie. Ma, quando calerà il sipario, non smettiamo di riflettere sui segnali deboli di Tokyo 2020.

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