sabato 30 ottobre 2010
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Le statistiche, si sa, non perdonano. A volte sono un pugno diritto allo stomaco. L’Istat ha certificato che un giovane italiano su quattro, fra i 16 e i 24 anni, non ha un’occupazione. Il dato, purtroppo, segnala una tipicità italiana. Infatti, se la media complessiva delle disoccupazione ci vede all’8,3 % rispetto all’Eurozona che viaggia al 10,1%, i giovani italiani senza lavoro sono ben il 26,4% rispetto al 20,3% degli europei. Dunque, dobbiamo prendere atto di questa realtà che segnala, per le nuove generazioni, una strettoia spesso soffocante all’ingresso nel mondo del lavoro.Le famiglie italiane di tutto questo sono ben consapevoli e hanno già fatto moltissimo. Hanno finanziato gli studi dei loro figli, sino ad attingere ai risparmi o a indebitarsi. C’è anche chi ha reinvestito la propria liquidazione per dare una mano ai ragazzi nell’avvio delle attività più disparate. A tale riguardo, come segnala la Coldiretti, non è secondario il ruolo dei genitori nel ritorno dei giovani all’agricoltura, soprattutto biologica. C’è poi chi s’industria per inventarsi letteralmente una qualche forma di lavoro: tanti giovani maestri elementari e laureati hanno ripreso a dare lezioni in casa. Ma tanti, troppi di questi giovani, non riescono a produrre un reddito significativo. Insomma sono lontani da un lavoro buono, non necessariamente garantito, per sbarcare il lunario. E spesso, molto spesso, i genitori sono costretti a "finanziare" i propri figli, anche ben oltre la fatidica soglia dei 24 anni indicata dalle statistiche, per consentire loro un tenore di vita accettabile. E non parliamo qui di lussi, ma del necessario per vivere e, talvolta, sopravvivere.Tutto questo esige una presa in carico, umana e sociale, da parte di tutti i soggetti. Paradossalmente non può bastare neppure la politica. Che, anzi, presa com’è dall’angustia della stabilità finanziaria e del debito pubblico storico, appare talvolta paralizzata (anche se, come nel caso dell’accordo sull’apprendistato, ha saputo favorire un’intesa significativa tra datori di lavoro e sindacati). Qui entra, o meglio dovrebbe entrare in gioco, la fantasia generosa che può nascere solo da un forte patto di solidarietà fra le generazioni. La premessa che dovremmo condividere, infatti, ha molto a che fare con il nostro futuro. Cosa possiamo aspettarci da un mondo che invecchia velocemente se tagliamo fuori dal lavoro produttivo intere generazioni? Allora il "che fare" ci riguarda, eccome. Solo pochi giorni fa un grande istituto di credito si è impegnato, con i sindacati, a privilegiare le assunzioni dei figli dei dipendenti, purché laureati e con basi di lingua inglese. L’accordo è stato aspramente criticato, ma dobbiamo renderci conto che è figlio della disperazione. E con i disperati bisogna avere un minimo di comprensione.Veniamo allo scatto di fantasia. È possibile immaginare, per tante fasce del pubblico impiego come del lavoro privato che il genitore arrivato a una certa soglia di età, decida di "condividere" il lavoro con un giovane? Il sistema del taglio dell’orario di lavoro, con relativa decurtazione del salario per garantire l’occupazione al maggior numero di lavoratori, è stato indicato come la chiave del recente successo tedesco e della sua capacità di ripartire tempestivamente dopo la grande crisi finanziaria. Si tratterebbe di finalizzare il sacrificio del lavoratore adulto verso i suoi figli. Non perché entrino nella stessa azienda dei genitori (sarebbe una nuova forma di immobilismo sociale), ma perché maturino una via preferenziale in altre realtà produttive pubbliche o private.L’allargamento della base produttiva è per il nostro Paese un fattore essenziale di stabilizzazione sociale. Lo hanno fatto i tedeschi perché non possiamo farlo anche noi? Cosa impedisce di finalizzare i sacrifici degli adulti? Non sarebbero più contenti, piuttosto che "assistere" i propri figli in età lavorativa, di rinunciare a una parte del salario purché abbiano il primo lavoro? Certo, dovrebbe essere un provvedimento ponte. Ma in Germania ha funzionato esattamente così. Un ponte verso giorni migliori.
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