venerdì 15 aprile 2011
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Il dibattito sulla condizione di solitudine delle imprese, che vede impegnati i vertici della Confindustria e il ministro dell’Economia, comprensivo dello strascico di reazioni, repliche e controrepliche, è una rappresentazione efficace della difficoltà di confrontarsi, con chiarezza e argomenti, sui reali problemi del nostro Paese.Vera o presunta che sia, la denuncia di uno stato di solitudine presentata da Emma Marcegaglia, di per sé non propone una reale gerarchia di bisogni e di soluzioni. E, d’altro canto, una risposta alla generica richiesta di aiuto non paiono poter essere né il Piano nazionale delle riforme (Pnr), né il Documento di economia e finanza (Def), appena presentati dal ministro Tremonti. Ciò che sembra essere deficitaria è una prospettiva capace di superare lo stallo cronico del confronto, come della capacità di crescita del Paese. Siamo in tempi di prova elettorale e la cosa non stupisce. Ma questo "nulla" di parole e di progetti dovrà finire prima che cominci l’estate.L’Italia, su queste colonne lo si è detto e scritto più volte, è uscita dalla crisi non senza problemi e sofferenze, ma per più di un aspetto lo ha fatto meglio di altri Paesi. La maggiore capacità di risparmio, il basso indebitamento privato e la solidità del sistema bancario sono stati i punti di forza sui quali si è innestata la necessaria politica di rigore condotta da Tremonti. Una cura dolorosa, ma che ha permesso all’Unione Europea e a tutti gli organismi internazionali di riconoscere – come ha fatto di recente anche il Fondo Monetario – la condizione di relativa sicurezza nella quale si trovano oggi i nostri conti pubblici. L’Italia non è la Grecia, né l’Irlanda o il Portogallo e neppure la Spagna. Per di più, si può aggiungere, conta su un sistema bancario in condizioni meno critiche di quello tedesco nell’esposizione verso i Paesi a rischio.Dire tuttavia che non vi è l’urgenza di misure aggiuntive, per l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2015, è probabilmente fornire una risposta non completa ai timori diffusi. Perché sì, basterà una semplice «manutenzione» della manovra triennale del 2010, per mantenere la barca al livello minimo di galleggiamento, ma nel Def si dice altrettanto chiaramente che negli anni 2013 e 2014 si renderanno necessarie manovre cospicue per incominciare a ridurre veramente il debito pubblico.Una domanda nasce allora spontanea: perché aspettare? L’emergere di nuove preoccupazioni e di ulteriori motivi di ansia ne è la logica conseguenza. E riguardano il reale stato dei conti pubblici, considerato che lo stesso Fondo monetario nega esplicitamente la possibilità del "pareggio" nel 2015. C’è voglia (e timore) di capire a quanto ammonterà il sacrificio già annunciato, ma di fatto rinviato di due anni. C’è incertezza e sfiducia per la fragilità degli impegni concreti per rianimare l’economia.Tra lo spettro di una maxi patrimoniale per abbattere l’Everest del debito, evocato solo pochi mesi fa, e la negazione dell’emergenza di queste ore, esiste probabilmente una via di migliore equilibrio (anche se non è purtroppo rintracciabile nelle indicazioni che emergono dall’attuale e, a esser buoni, deludente dialettica politico-parlamentare). Siamo un po’ tutti consapevoli, pur leccandoci ancora le ferite della crisi, di aver scampato un grave e maggiore pericolo, ma proprio per questo sentiamo ora il bisogno di un linguaggio coraggioso e forte. Vorremmo, insomma, che chi ci governa parli chiaro al Paese, rendendosi artefice di una liberatoria operazione-verità, accompagnata da un puntuale e preciso elenco delle priorità utili ad alimentare la crescita. Direzioni di marcia esplicite e concrete che, allo stato attuale, non emergono né nella lettura del Pnr, né nell’ascolto delle critiche all’azione del governo.L’Italia pullula di centri studi, eppure sconta un deficit elevatissimo nella capacità di indicare con nettezza gli interventi utili alla collettività e non a qualche limitato e definito gruppo di interessi. È un vuoto che pesa ancora di più in tempi nei quali c’è da far capire il senso dei tagli e dei sacrifici che sono premessa al sostegno dello sviluppo. La ricetta per riempirlo può e deve avere vari ingredienti. Ma ce n’è uno indispensabile: il primo soggetto da tutelare, la risorsa di futuro su cui puntare dopo decenni d’indecisione. La famiglia, che non è riducibile ai "consumatori", ma ha il volto reale dei padri, delle madri e dei figli.
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