domenica 18 aprile 2010
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Carcere, allarme, emergenza: ci risiamo. All’inizio dell’anno lo "stato di emergenza" fu perfino proclamato, tra plausi in attesa di miracolo e scetticismi pungenti. Oggi il dramma infinito prosegue, brucia l’invariato dolore di 65mila corpi ammassati in 43mila posti di capienza attrezzata per un patimento sopportabile. Il governo progetta di mandare a casa, per decreto legge, i detenuti che hanno da scontare l’ultimo anno di pena. Staranno a casa ma senza uscire, si capisce, se no tornerebbero in galera con una condanna in più e questo non gli conviene. Per l’ammasso carcerario sarà una boccata d’aria; niente di più, ma meglio che niente. Forse può funzionare, come si fa a non essere d’accordo, proviamo.Ma diventa cruciale capire che il carcere non è un problema congiunturale, ma strutturale in ragione della pena che viene amministrata in Italia per mezzo del carcere, e che va ripensata daccapo. Dico "daccapo" perché questo problema ha riempito di pensieri i giorni e le notti in un preciso momento storico della generazione passata: ricordo gli entusiasmi e le speranze, i progetti e gli impegni, e i sogni forse, i sogni sì, della "riforma penitenziaria" del 1975. Scrivemmo il più bel codice del mondo. E non ci siamo sbagliati, no, chiamandola riforma penitenziaria invece che carceraria. Non è il castigo in sè, il dolore, la frustata, la mano mozzata ciò che riscatta il delitto (ed è ancor peggio l’anima mutilata dalla trafila di un carcere simile alla Caienna), ma il mutamento del cuore e la conversione; è quel traguardo che la Costituzione chiama emenda e al quale finalizza ogni pena. Il carcere, le sbarre, la libertà incatenata sono varianti di quell’identico dolore in cui si deposita l’esecuzione di un castigo sociale, di una pena stampata su un marchio espulsivo; reputarle più gentili o più civili delle frustate in piazza è una convenzione che rifiuta la barbarie della tortura corporale, ma non schiva la barbarie della tortura spirituale. Alle strette: noi rifiutiamo la pena di morte e l’abbiamo bandita nella Costituzione, ma non passa settimana senza che uno dei nostri carcerati si uccida, cioè si dia una pena di morte preferita alla tortura del nostro carcere, senza incomodo di boia. Collocare il castigo nell’orbita di un cammino redentivo, e non più espulsivo, ci parve allora una promessa, persino una scommessa. E quanto ci hanno sudato e investito, gli addetti professionali e volontari, io lo so.Oggi pensare al carcere (teorico) come sede privilegiata di un cammino emendativo, e vedere il carcere (concreto) com’è, scoraggia fino alla disperazione. Che cosa non ha funzionato, che cosa ha fallito? Capirlo è essenziale, adesso. Confessando il fallimento, la strategia penitenziale deve sfondare i cancelli, deve essere "partecipata". Mandare a casa i detenuti con un anno di anticipo può diventare una chance preziosa; ma è un’ illusione insensata se li consegnerà alla solitudine di "carcerati sfollati" di cui non si occupa più nessuno. Perché, infine, resta qui la sfida: la pena, fattasi penitenza, ha un traguardo sociale di riammissione, di ricircolo, di riappartenenza, vorrei dire di riabbraccio nell’onestà recuperata. Il congedo che suona come un "via di qui, i posti sono limitati, e tu ci ingombri" può suonare come il disprezzo residuo verso chi conta ormai così poco che chiudere un occhio è toglierselo dagli occhi. No, quando lo Stato giudica un uomo e gli dà pena, si prende pena per lui, per la sua guarigione.
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