giovedì 24 marzo 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Sono molti a pensare che stiamo vivendo una stagione della storia segnata da profondi capovolgimenti epocali: dalla "rivolta del pane", alla crisi libica, per non parlare delle altre guerre che producono miserie e privazioni. E cosa dire degli stravolgimenti provocati da terremoti, tsunami e altre forze della natura. Mai come oggi si avverte pertanto il bisogno di promuovere la speranza evangelica su scala planetaria, rivolgendosi ad autorevoli modelli di riferimento.La sfida consiste nel rieducare l’animo umano, una preoccupazione peraltro resa esplicita nel recente piano pastorale del nostro episcopato per il prossimo decennio, intitolato "Educare alla vita buona del Vangelo". Ed è proprio questo lo spirito che anima la celebrazione dell’odierna "Giornata dei Missionari Martiri", sul tema "Restare nella Speranza".Com’è noto, il 24 marzo del 1980 veniva assassinato barbaramente in Salvador una delle figure più luminose della Chiesa del Novecento, monsignor Oscar Arnulfo Romero. E oggi la Chiesa Italiana lo ricorda assieme a tutti quei missionari e missionarie che hanno dato la vita per la causa del Regno di Dio. Siamo lontani anni luce da ogni retorica di circostanza, perché quello che si propone è un modo concreto – attraverso la preghiera e il digiuno – per fare memoria della vita donata gratuitamente da uomini e donne che hanno creduto nella forza della Parola di Dio. La loro testimonianza di vita è motivo di grande conforto e rappresenta il valore aggiunto della fede cristiana rispetto a certe ideologie che promettono il successo a tutti i costi. Alla radice semantica della testimonianza, è bene rammentarlo, vi è la parola greca martyrion, da cui deriva la parola martirio. Chi è infatti il testimone, se non chi è pronto a dare tutto per la causa che si è prefisso di perseguire?Storie davvero avvincenti, quelle dei nostri missionari, che toccano il cuore perché riescono ancora oggi a ricomporre il legame inscindibile tra il Vangelo e la vita quotidiana. Stiamo parlando di persone in carne e ossa, la cui identità non si è mai fondata sul disprezzo e sulla prevaricazione nei confronti del prossimo, ma sulla talvolta scomoda e comunque radicale conformazione a Cristo. «Arruolare i martiri sotto il segno della speranza è certamente un’impresa ardua», ha giustamente scritto don Gianni Cesena, direttore della Fondazione Missio (l’organismo pastorale della Cei che promuove ogni anno questa iniziativa ecclesiale, grazie al contributo del Movimento giovanile missionario). Il martire è, per definizione, colui che vede interrotta in maniera brusca la propria esistenza, spesso un’esistenza densa di sapienza, di amore, di dono di sé, «tuttavia – precisa don Cesena – egli non resiste solo nella memoria commossa di chi lo ha conosciuto o nel ricordo dei suoi gesti e insegnamenti: il martire resiste in Cristo».Questo mistero – che i teologi definiscono «escatologico» – non isola il martire, ma lo restituisce alla sua comunità, a chi lo ha conosciuto, a chi ne sente parlare per la prima volta. Ogni martirio è certamente sintomatico della prevaricazione, dell’ingiustizia, dell’arbitrio, delle peggiori realizzazioni umane. E sebbene il ripetersi fin troppo frequente di episodi di martirio tra i missionari e tra i cristiani che vivono nelle periferie del mondo rinnovano dolore, smarrimento, talvolta anche paura e rabbia, l’insegnamento delle Beatitudini ricorda a ogni credente che la persecuzione è profezia, rappresentando sempre e comunque il segno più evidente dell’autenticità cristiana (Mt 5,11). Nello scandalo dell’apparente assenza, il martire diventa così promotore di una nuova umanità, sorgente di speranza, messaggio che supera il tempo e lo spazio.Tra tante inquietudini, ci solleva l’idea che non sia completamente andata perduta l’antica saggezza secondo cui c’è più insegnamento e vita autentica nella verità dei propri comportamenti che nei discorsi infarciti di promesse e luoghi comuni. È proprio questa la lezione impartita dai martiri del Vangelo, all’insegna della coerenza di vita, perché «la storia siamo noi».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: