sabato 6 marzo 2010
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Prima o poi doveva accadere. Sì, la questione della presentazione irregolare di liste (e listini) non è inattesa. Almeno per chi sta seguendo l’andamento della lunga transizione dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica. Un passaggio ancora incompiuto, ma ben noto nei suoi tratti essenziali, a partire dal bipolarismo imperfetto del sistema elettorale del Parlamento e, ancor prima, dall’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Province e delle Regioni, oltre al crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e a una proliferazione di leggi approvate con il voto di fiducia. Premesse da cui derivano l’impoverimento della discussione parlamentare e, in misura inversa, l’incremento esponenziale delle presenze televisive dei politici. In tal modo i media (tv e radio soprattutto) da strumenti di informazione, si sono trasmutati in luoghi di discussione, quando non di propaganda laddove manchi il contraddittorio. La conseguenza più evidente di questi nuovi tratti del fare politica, tocca inevitabilmente la qualità della rappresentanza. Se prima questa aveva a che fare con il territorio, adesso troppo spesso ne è sostanzialmente sganciata. Le realtà locali non sono più la base propulsiva del motore politico, ma progressivamente si stanno trasformando in terminali di procedure di consenso e di leadership che originano altrove. Soprattutto in televisione. Un cambiamento che, però, sta avvenendo con molte improvvisazioni (come è stata ad esempio la decisione sui talk show), e con evidenti vuoti nel raccordo tra vecchio e nuovo. Ed è ciò che la questione delle firme e delle liste sta a dimostrare. Fino all’inizio degli anni Novanta, i partiti politici avevano strutture solide e molto efficienti. Problemi di firme non c’erano a nessun livello, i funzionari di partito sapevano bene a chi e come chiederle, per presentarle correttamente compilate e nei tempi appropriati. Indifferentemente nei piccoli e nei grandi centri, perché ovunque esisteva il collante della conoscenza diretta tra i partiti e la popolazione. Anzi in alcune periferie il "partito" finiva per svolgere anche ruoli di supplenza sociale. Adesso non è più così: all’esposizione mediatica dei leader, infatti, non corrispondono più quegli automatismi che garantivano l’efficacia dell’azione politica. Tutto è molto più vago e non sempre affidabile come una volta. Certo, le firma sui moduli cartacei da presentare all’ufficio elettorale, nell’era del web 2.0, appare anacronistica. Se, infatti, il numero delle firme si configura come una sorta di garanzia dell’esistenza reale del partito, esso avrebbe lo stesso valore se, invece che sulla carta, le firme fossero raccolte in forma digitale. Del resto il riferimento al territorio del «buon tempo andato» (ma – ci si può domandare – se «le belle bandiere» evocate da Pasolini, siano mai esistite...), di fronte ai territori virtuali e dell’interattività telematica, ha perso parte del suo valore. Il confronto specie quello delle nuove generazioni, si svolge in altri modi: spesso coinvolgenti anche se politicamente indifferenti o irriducibili al politically correct. Insomma, se è giusto richiamare il valore del territorio, tale richiamo deve però comprendere anche le nuove realtà di incontro e di comunicazione. Di fatto siamo alla vigilia del voto elettronico e, quindi, alla formazione di un consenso meno scontato, ma forse più rispondente alla contemporaneità. Le questioni delle liste di questi giorni, al di là del merito politico, mostrano anche la necessità di leggi nuove e non solo "occasionali" per sanare errori e mancanze che si sarebbero pure potute evitare.
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