domenica 2 dicembre 2012
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L’Avvento – ogni avvento, e ogni ve­ra attesa di salvezza – è una e­sperienza fondamentale soprattutto nei tempi di crisi. Non si esce da nes­suna crisi se non ci si esercita nell’arte dell’attesa di una salvezza, arte gioio­sa e dolorosa assieme. Una salvezza che occorre prima volere per poi deside­rarla. La nostra è crisi epocale perché manca il desiderio di salvezza, e man­ca perché non abbiamo, collettiva­mente, occhi capaci di vederla o, quan­tomeno, di intravvederla.Per chiedere 'quanto manca al giorno?', è necessa­rio il desiderio dell’alba, e saperne ri­conoscere i segni. In questi anni si an­nunciano troppe 'albe', perché ognu­no vede i segni della propria alba lad­dove per altri è solo notte fonda. Qualcuno la in­dividua nella ri­presa del Pil, e spera di veder­ne i primi se­gnali nella ri­presa dei con­sumi (la malat­tia che diventa cura), altri in u­na ecumenica, ma piuttosto vaga, 'econo­mia sociale di mercato', altri ancora nella eliminazione dei partiti per affidare anche la cosa pubblica a impre­se for-profit, realtà finalmente efficienti e responsabili. Tutte queste 'albe' non sono però abbastanza forti e cariche sim­bolicamente per muovere le passioni u­mane alte, e quindi per aggregare attor­no a esse grandi azioni collettive e po­polari. E così più scorre il tempo, più lon­tana appare - ed è - la fine della notte. U­na economia dell’attesa oggi dovrebbe contenere alcune parole fondamentali. Insieme a 'lavoro' e 'giovani', su cui non si scrive e soffre mai abbastanza, ci sono almeno tre parole che se mancano dal vocabolario e dalla grammatica civi­le, rendono illusione ogni attesa.La prima di queste parole è virtù, in par­ticolare virtù civile. C’è invece tutta un’antica e persino gloriosa tradizione che ha teorizzato che dalle crisi si esce con i vizi, non con le virtù. Ma l’attesa è una virtù poiché va coltivata, accudita, mantenuta soprattutto quando i tempi sono duri. Bernard de Mandeville, tre­cento anni fa, ci ha raccontato 'La favo­la delle api', dove la conversione dell’al­veare vizioso (ma opulento) in virtuoso aveva prodotto miseria per tutti. La tesi è chiara: solo i vizi creano sviluppo, per­ché se la gente non ama lusso, comodità, edonismo, giochi, l’economia si blocca per mancanza di domanda. E questo varrebbe anche e soprattutto in un Paese come il nostro la cui economia dipende molto, forse troppo, dal consumo di questi beni. È un’idea che purtroppo si ritrova ben radicata in buona parte della classe dirigente italiana, che invoca le virtù civili ormai solo in riferimento all’evasione fiscale, senza comprendere la regola elementare che sta alla base della vita in comune: se uno 'spot progresso' condanna il «parassita sociale» e quello successivo spinge il gioco d’azzardo, i due segni si annullano l’un l’altro. La vera lotta all’evasione si chiama coerenza etica, che diventa forza politica e amministrativa.Una seconda grande parola dell’attesa è 'relazioni'. Sono impressionanti i dati sull’aumento della litigiosità nel nostro Paese durante questa crisi. Dai condomini ai rapporti con i colleghi, dal traffico alle denunce a maestri e dottori, la crisi sta incattivendo le relazioni di prossimità – sebbene, come sempre accade, questi anni vedano anche il fiorire di nuove esperienze di relazioni virtuose e produttive. Il peggiorare delle relazioni è un dato preoccupante, perché altre gravi crisi che abbiamo attraversato (pensiamo alle grandi guerre e alla dittatura) avevano nella sofferenza rinsaldato i legami sociali, ri-creato amicizia e concordia civile che furono essenziali anche per la ripresa economica. Se non saremo capaci di curare le nostre antiche e nuove malattie relazionali (che cos’è la corruzione se non relazioni malate che creano istituzioni malate che a loro volta riproducono relazioni ancora più malate?), nessuna economia, che è prima di tutto un intreccio di relazioni, potrà mai ripartire.Infine, una terza parola è 'imprenditore'. I grandi maestri dell’attesa sono stati e sono i contadini, gli artisti, gli scienziati, soprattutto le madri. Ma anche l’imprenditore. I veri imprenditori, tutti e soprattutto quelli medio­piccoli, i cooperatori, gli imprenditori civili e sociali, oggi stanno soffrendo molto, più di quanto si dica e si racconti. Questi imprenditori nei decenni passati sono stati capaci di creare valore dai valori 'mettendo a reddito' le vocazioni produttive e cooperative delle nostre valli, dei borghi, delle montagne, delle coste e del mare, e oggi vedono svanire ricchezza e lavoro per le strette creditizie, per la mancanza di politiche di sistema, e per l’invasione di speculatori che spiazzano e spesso mangiano le loro imprese. L’imprenditore è uomo e donna dell’attesa, perché vive solo se è capace di sperare (la speranza, altra virtù civile), perché se non sperasse che il mondo di domani potrà essere migliore di quello di oggi, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a speculare in cerca di profitti (solo degli speculatori senza scrupoli possono fare miliardi di profitti inquinando e uccidendo territori e persone). Chi ha generato e fatto crescere un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di attesa di una salvezza e di speranza contro gli eventi, contro i consigli prudenti degli amici ('ma chi te lo fare?'), contro le previsioni degli esperti ('ma perché non vendi?'), quando ha avuto la forza di insistere e credere nel suo progetto. Il mondo - e in esso l’Italia - vive ancora perché esistono persone capaci di attendere e di sperare in una salvezza, in attesa di un’alba, di un Natale.
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