martedì 15 maggio 2018
All'Istituto don Sturzo si è discusso dell'azione di statista ma anche sul dirigente delle organizzazioni cattoliche, lo scienziato del diritto, l’uomo di profonda spiritualità
(Ansa)

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Caro direttore, in questi giorni velati da grande tristezza per il ricordo angosciante del barbaro assassinio di Aldo Moro, preceduto da quello degli uomini della sua scorta, è più che mai importante restituire alla nostra memoria collettiva la figura di una personalità che per oltre mezzo secolo si è spesa per attestare il nostro Paese nel quadro delle democrazie costituzionali occidentali. Con tale motivazione l’Istituto Luigi Sturzo ha organizzato ieri, lunedì 14 maggio, un Convegno di studi dedicato a 'Moro nella storia della Repubblica': le ricerche sono state volte all'acquisizione di un punto di vista più maturo della sua opera nelle istituzioni pubbliche e nell'organizzazione delle risorse utili alla loro gestione e al perseguimento dei loro fini. La scelta di proseguire e, se possibile, di approfondire il profilo del Moro statista, non ha fatto trascurare i molti elementi che sono all’origine e hanno caratterizzato la sua attività pubblica: dalla formazione giovanile, alla cultura giuridica e alla particolare e matura spiritualità.

È infatti opportuno aiutare a superare l’idea corrente che la vicenda politica di Moro si possa racchiudere nei 55 giorni della sua orribile prigionia e del suo assassinio, non tenendo conto che quegli eventi rappresentarono la più rilevante e tragica (per alcuni forse evitabile) manifestazione di una crisi sistemica già avviata dall’inizio degli anni 70 del Novecento e ancora oggi non conclusa, almeno nelle sue ragioni profonde. È stata sottoposta a rigorosa verifica la tradizionale interpretazione di parte della storiografia e di parte dell’opinione pubblica tesa a scindere l’identità di Moro: da una parte il giudizio positivo sul dirigente delle organizzazioni cattoliche, lo scienziato del diritto, l’uomo di profonda spiritualità, dall’altra le forti riserve sull’uomo di governo che, con le sue incertezze, avrebbe frenato vari processi istituzionali e politici e arrecato danni al Paese o che, al contrario, con i suoi 'balzi in avanti', in particolare con il centrosinistra, ne avrebbe minacciato la stabilità sociale. La verifica si è mossa dall’analisi dei tempi e dei modi nei quali Moro operò nei ruoli di ministro e di segretario nazionale della Dc.

I tempi, dalla metà degli anni 50 fino all’inizio degli anni 70, furono sul piano istituzionale e amministrativo quelli del 'congelamento costituzionale': su tale lunga impasse gravarono fattori esterni come la guerra fredda, ma soprattutto la forte conflittualità tra i partiti e i governi, nonché la resistenza di parte dell’opinione pubblica. Non a caso, vari anni dopo Giuseppe Dossetti ricordò quegli anni come la stagione nella quale «la Costituzione non era entrata nella prassi di governo», ma neppure nella «mentalità di tutta la classe dirigente dei partiti» e in parte del «mondo cattolico». In quella stagione, Moro nelle numerose scelte e decisioni richieste dai suoi ruoli istituzionali ebbe sempre presente il precetto affidato ai giovani intellettuali cattolici da monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI; sulla necessaria «unità di vita» per non scindere le intime convinzioni dalle azioni, private e pubbliche. Certo, lo statista pugliese ebbe presenti i rischi che comportava l’esercizio del potere anche in un sistema democratico: di qui i suoi dubbi e le sue ansie. Del resto, Moro, per avere collaborato con Giuseppe Capograssi alla stesura del primo capitolo del Codice di Camaldoli, conosceva bene i pericoli per la vita pubblica e per la stessa democrazia quando «la politica sopraffà il diritto», minando le istituzioni e impedendo alle articolazioni sociali di costruire condizioni di vita soddisfacenti e solidali.

Presidente dell’Istituto Sturzo

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