martedì 18 giugno 2013
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Mentre cronache amare e tragiche dal Canale di Sicilia ci portano a riflettere di nuovo sulle cause delle migrazioni che, in precarietà e per disperazione, attraversano il Mediterraneo, il tema dell’integrazione e della cittadinanza dei nuovi italiani continua a essere al centro del dibattito politico. Ieri, ne ha scritto ancora una volta Giovanni Sartori sul Corriere della Sera, con una serie di argomentazioni (a tratti deboli) che mal si addice a una questione che investe il futuro stesso dell’Italia. Indelicato è l’attacco al ministro dell’integrazione, Cécile Kyenge, che poco o nulla saprebbe del tema, neanche il significato della parola "meticcio". La signora ministro, reduce da una serie di attacchi di tipo razzista, ha invece ben presente il vissuto delle cosiddette seconde generazioni, le loro esigenze e aspettative. Sono figli di un’integrazione avvenuta quasi naturalmente, grazie soprattutto a quello snodo prezioso del nostro corpo sociale che è la scuola, spazio capace di unire e di trasformare. Si tratta di italiani in tutto fuorché nel passaporto. Perché non sancire giuridicamente quel che hanno già cominciato a essere? Perché non pensare a una vera integrazione che li renderebbe ancora più italiani? Facilitare loro l’ottenimento della cittadinanza sarebbe allo stesso tempo un atto dovuto e un ottimo investimento. Sartori confonde e si confonde, invece, tra stranieri e aventi diritto alla cittadinanza. Tra chi ha passato in Italia tutta la vita e «gli immigrati – scrive – che battono le strade rendendole pericolose». Un luogo comune fin troppo abusato. Va ricordato che quando si parla di revisione della legge di cittadinanza, non si intende riconoscimenti-premio. Bensì il diritto alla dignità e all’inclusione che ragazzi e ragazze, che per lo più parlano solo italiano e conoscono bene la nostra cultura, hanno già maturato, tanto che la stessa legge in vigore concede loro di optare per il nostro passaporto allo scadere del diciottesimo anno d’età. Il punto è rendersi conto che quella legge, la 91 del 1992, è stata scritta in un’altra "era geologica". Il punto è se continuare a complicare loro la vita, se accettare, come avverte il presidente Napolitano, che «rimangano troppo a lungo legalmente "stranieri", nonostante siano, e si sentano, pienamente italiani». Si tratta, invece, di definire meglio cosa significhi essere italiani, approfondendo un’identità che si fonda non tanto sul solum o sul sanguis, bensì sulla cultura. Di qui la proposta, lanciata da Andrea Riccardi, condivisa da tanti e più volte approfondita su queste colonne, di uno ius culturae: la cittadinanza ottenuta, alla fine di un ciclo scolastico, dai figli di genitori lungoresidenti. Vanno riconosciuti e valorizzati i percorsi di integrazione già compiuti. Una prospettiva possibile, che aiuterebbe a superare le resistenze di chi si oppone allo ius soli.Il politologo fiorentino è totalmente scettico sui processi di integrazione, e cita l’India dei secoli scorsi. Ma non ci si può basare, per parlare dell’Italia e dell’Italia di oggi, sull’esempio del Sultanato di Delhi. Abbiamo avuto modelli positivi più vicini a noi nello spazio e nel tempo che dovrebbero farci riflettere. La nostra Penisola ha integrato più volte genti e culture. Quante pagine e timbri diversi nel passaporto storico del Bel Paese! Si pensi alla capacità d’integrazione messa in campo dai Romani, cui si deve lo stesso profilo culturale dell’Europa e la diffusione di quei valori che Sartori vuole difendere contro gli integralismi. Un modello latino ancora valido e fruttuoso se è vero, com’è sotto gli occhi di tutti, che la stessa integrazione italiana passa per un processo "adottivo", fondato sulla vicinanza fisica, sul convergere di percorsi esistenziali, all’interno delle famiglie italiane, della scuola, dell’associazionismo, degli enti locali, del tessuto produttivo. "Fare gli italiani" – di risorgimentale memoria – è il compito di ogni Italia. Anche di quella attuale. È necessario uno sguardo costruttivo su fenomeni storici di così vasta portata come le migrazioni e quanto ne consegue. Al di là, poi, dei tentativi di Sartori di restringerne il campo semantico, sul "meticciato" giova ricordare le parole del cardinale Scola: «Parlare di "meticciato" significa riconoscere l’altro come decisivo per la costruzione del "noi": la concezione rigida e aprioristica dell’identità deve lasciare il posto alla concezione dell’identità come un fattore dinamico».L’Italia è e sarà sempre più la risultante dello sforzo di tanti, basato su un storico e comune giacimento di umanesimo, di valori, di esperienze, e capace di sviluppare una ricca e inedita estroversione.
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