E la premier danese propose: meno preghiere, più armi
giovedì 19 gennaio 2023

Meno preghiere, più armi. Detta in breve, suona in sostanza così la proposta della premier danese, Mette Frederiksen, che per finanziare l’aumento della voce di spesa “Difesa” fino al 2% del Pil entro il 2030, come richiesto dalla Nato (non solo) per la guerra in Ucraina, vorrebbe cancellare la festività dello Store bededag, il Grande giorno di preghiera.

Istituita nel 1686 da re Christian V, per impulso del vescovo luterano Hans Bagger, la giornata nacque dall’esigenza di riunire in un'unica data, il quarto venerdì dopo Pasqua, le diverse feste di santi che si celebravano in primavera. Oggi, più che una festività religiosa, è considerata un anticipo di fine settimana da dedicare agli affetti e al relax. Non sorprende pertanto la levata di scudi che, in nome della “preghiera”, ha visto coalizzarsi i nove partiti di opposizione al governo socialdemocratico e centrista, mettendo insieme la sinistra radicale e l’estrema destra. Contraria anche la principale organizzazione sindacale, Fagbevgelsens Hovedorganisation (Fh), 1,3 milioni di iscritti su una popolazione di 5,8 milioni, che ha lanciato una petizione online: «La vita non si limita al lavoro e a fogli di calcolo. Il Grande giorno di preghiera è il nostro giorno libero comune, dove possiamo rilassarci o stare con la nostra famiglia e i nostri amici. Deve rimanere tale in futuro in Danimarca». In una lettera indirizzata al ministero dei Culti, dieci vescovi della Chiesa luterana evangelica hanno espresso «stupore e tristezza», denunciando una «rottura nelle relazioni di fiducia» tra Chiesa e Stato.

Al di là della polemica interna, in cui i sindacati accusano l’esecutivo anche di voler imporre l’agenda per le trattative collettive tra le parti sociali e invocano un referendum, a colpire è la logica ferrea che sottostà alla scelta. Poiché l’obiettivo è l’aumento del budget per le spese militari, appare quasi ovvio che la voce di bilancio da tagliare sia un tempo dedicato da secoli alla preghiera.Il punto non sta nei numeri forniti dal ministero delle Finanze, secondo il quale un giorno lavorativo in più farebbe salire il Pil di 1,2 miliardi di euro, portando 400 milioni nelle casse dello Stato. Ragionamento peraltro contestato da alcuni economisti. Il fatto è che, fra le 11 festività dell’anno, la scelta è caduta su quella. Come dire che il tempo per fermarsi a pregare – magari per la pace – socialmente non è necessario o tutt’al più resta un fatto privato gestibile come tale. E chi è contrario difende solo il proprio tempo libero.

C’è da augurarsi che nel dibattito danese trovi spazio una riflessione sul valore di pacificazione, per sé e per il mondo, della preghiera. E sulla sua indubbia inconciliabilità con la logica delle armi.

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