sabato 8 marzo 2014
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Non c’è solo l’evasione fiscale. Il fenomeno dell’elusione fiscale sottrae ogni anno all’erario circa 60 miliardi in Italia e, complessivamente, 1.000 miliardi nella Ue rischiando di inverare sempre di più il paradosso di una globalizzazione fatta di ricchezza senza Stati e di Stati senza ricchezza. Eludere il fisco per un’impresa di grandi dimensioni è semplice. Basta aprire società controllate in paradisi fiscali e inventare finte transazioni che in realtà spostano profitti realizzati in Paesi a tassazione normale verso Paesi a tassazione agevolata.Gli Stati nazionali hanno sinora chiuso un occhio, ma non sembrano più disposti a farlo vista la situazione delle finanze pubbliche dopo la crisi finanziaria mondiale. La stessa Ocse (dove il nuovo ministro del Tesoro Piercarlo Padoan ha operato fino alla nomina) sta lavorando su progetti di armonizzazione fiscale e lotta all’elusione dopo aver sottolineato come il fenomeno dell’elusione rappresenti tra l’altro un fattore di concorrenza sleale delle grandi imprese nei confronti delle piccole (con le prime che pagano in media un’imposta sui profitti del 5% contro il 30% delle seconde). Le cose dovrebbero migliorare con la progressiva attuazione della direttiva che prevede lo scambio automatico di informazioni tra autorità fiscali. Il tesoretto dell’elusione farebbe immensamente comodo al nostro Paese. Che soffre maledettamente il problema della mancata armonizzazione fiscale trovandosi con la moneta unica a non poter competere né con la svalutazione del cambio, né con un costo del lavoro più basso, né con maggiore efficienza rispetto ad altre nazioni che hanno debiti molto inferiori e possono così offrire condizioni fiscali di favore alle imprese che localizzano la produzione sul loro territorio. Stretti tra Scilla e Cariddi, tra le condizioni fiscali di favore dei Paesi dell’Est Europa che hanno ereditato dalla privatizzazione postcomunista debiti pubblici molto più contenuti e le offerte dei paradisi fiscali interni di molti Stati membri ad alto reddito (Lussemburgo, Regno Unito, Olanda), dovremmo porre la questione dell’armonizzazione fiscale come una delle massime priorità d’impegno in sede comunitaria.Un primo provvedimento necessario per poter intervenire è quello di aumentare informazione e trasparenza nei bilanci. L’adozione del Country by country reporting (ovvero di bilanci di multinazionali non aggregati, ma divisi per Paese) sarebbe da questo punto di vista fondamentale. Le regole di Basilea III lo prevedono espressamente per le banche dal 2015, ma dovrebbe essere così anche negli altri settori. Sulla base di quest’informazione diverrebbe molto più facile misurare la "responsabilità fiscale d’impresa" e si colmerebbe una lacuna sorprendente nell’attuale moda della responsabilità sociale d’impresa che guarda a tutto (ambiente, diritti umani, lavoro, attività in settori controversi, gestione d’impresa, qualità del prodotto) meno che alla responsabilità fiscale.Attribuzioni di rating di responsabilità fiscale alle imprese potrebbero consentire di fissare soglie minime di responsabilità sotto le quali non sarebbe consentito alle stesse di partecipare agli appalti pubblici (così come accade oggi per la responsabilità ambientale http://www.minambiente.it/pagina/criteri-ambientali-minimi). La stessa classificazione potrebbe essere utilizzata per la costruzione di politiche di premialità/penalizzazione fiscale sulla tassazione al consumo dei prodotti di tali imprese e per lo stimolo del "voto col portafoglio" dei cittadini che sicuramente attribuirebbero un peso a tale fattore nelle loro decisioni di consumo se opportunamente informati e sensibilizzati. Ad esempio con un portale nel quale l’informazione sui rating di responsabilità fiscale venga resa disponibile a tutti.Sarebbe opportuno che il governo si facesse carico di sostenere questa proposta anche in sede comunitaria, dove essa potrebbe sicuramente trovare terreno fertile nell’ambito della "Social Business Initiative" (l’iniziativa europea sull’impresa sociale). Il vantaggio del contrasto all’elusione fiscale è che esso non sarebbe penalizzante per l’Italia anche se realizzato soltanto da noi, vista la stragrande maggioranza di multinazionali di proprietà estera e di piccole e medie imprese di proprietà italiana che vendono prodotti nel nostro Paese.
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