venerdì 26 settembre 2014
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L’estate appena finita ha portato, come di consueto, un numero ancora crescente di sbarchi di profughi e migranti, desiderosi di trovare in Europa la possibilità, negata in patria, della mera sopravvivenza. All’opposto, la guerra scatenata dall’Is ha segnalato all’attenzione di tutti la realtà sconvolgente di europei – di seconda generazione, ma anche autoctoni – convertiti al più truce fondamentalismo islamico, che abbandonano i loro Paesi per trasformarsi in boia, nei più determinati ideologi della distruzione, nella manovalanza di uno dei più terrificanti eserciti dell’epoca recente.Oltre ai mille altri interrogativi che queste contrapposte emigrazioni fanno sorgere, mi pare che almeno una se ne imponga come inaggirabile. È possibile ancora pensare che l’accoglienza che l’Occidente offre –anche se non sempre di buon grado o senza polemiche – alle ondate di perseguitati del Medio Oriente o di derelitti provenienti dall’Africa sub-sahariana sia solo il frutto di una alta forma di civiltà scaturita da una secolare cultura dei diritti dell’uomo? Certamente in parte, e anche in buona parte, sì. Tuttavia credo che sia insufficiente attribuire alla sola tradizione laica – dall’habeas corpus alle varie elaborazioni delle teorie dei diritti dell’uomo e del cittadino – la radicata e decisiva convinzione che permea il mondo europeo, dell’uguaglianza ontologica degli esseri umani tra loro. Anche se la stragrande maggioranza degli europei non pensa questa uguaglianza nelle sue motivazioni filosofiche, nondimeno essa appare oggi data per scontata nella coscienza comune. Questa coscienza acquisita fa sì che guardiamo con orrore all’olocausto nazista, ultima massiccia teorizzazione della "ragione" europea circa la possibilità di una differenziazione ontologica tra umano e subumano. Le immani eliminazioni di massa staliniane non appartengono infatti alla logica di una differenziazione ontologica tra esseri umani in due differenti tipologie, una superiore e una inferiore, quanto, piuttosto, a una degradazione generale di tutti gli individui umani a scalino nell’illusione di approdare alla concreta realizzazione di un genere umano collettivo completamente liberato.Ma oggi, di fronte al dispiegarsi selvaggio di una violenza brutale che si oppone dichiaratamente al modus vivendi occidentale, occorre chiedersi se e quanto le nostre teorie liberali e tolleranti, individualistiche, ostentamente aperte al "multiculturalismo" e – almeno a parole – accoglienti di qualsiasi differenza, siano risposta sufficiente alla violenta affermazione identitaria che ci fronteggia, innalzando teste decapitate, esibendo genocidi e distruzioni e proclamando orgogliosamente il proprio autoreferenziale fondamentalismo. Quanto, inoltre, siano fedeli alla radicata convinzione cui si faceva cenno, dell’uguaglianza ontologica di tutti gli esseri umani. C’è, in realtà, un solo motivo culturale della tradizione europea la cui forza nitida appare capace, nella sua apparente debolezza, di rinvigorire e riportare a unità le radici antropologiche sfilacciate dalle crescenti distinzioni di diritti umani ormai polverizzati. La testimonianza viva di questa cultura ci viene dalla vita e dalla morte di tre semplici suore in Burundi e dalla resistenza eroica dei cristiani di Mosul che mettono in gioco la vita pur di non abiurare il proprio credo religioso e non essere costretti, tradendo, a percorrere le stesse strade di morte dei loro persecutori.Le elaborazioni giuridiche e politiche che l’Europa ha prodotto sui diritti degli uomini a essere considerati uguali per natura e in dignità, liberi nelle proprie convinzioni e nella responsabilità della propria autonoma coscienza, sono il grande vanto di una tradizione culturale che – occorre proclamarlo – è stata, in questo, faro del mondo. Che questi princìpi, mentre li proclamava, l’Europa li abbia calpestati senza il minimo scrupolo – nel colonialismo, nelle durature discriminazioni uomo/donna –, è stata la sua vergogna. Che oggi finisca di tradirli negando loro qualsiasi ancoraggio in una natura stabile – anche se, certamente, storicamente situata – per consegnarli a un puro, occasionale e storico intreccio di relazioni, è la sua autodistruzione. Le tre suore uccise in Burundi e i cristiani di Mosul ci ripetono una verità semplice, verità di fede dotata di un’immensa proiezione culturale la cui traccia ha segnato il mondo intero e che il delirio postmoderno si accanisce a violentare: il fondamento dell’accoglienza del diverso non sta nella vertiginosa enumerazione delle differenze, come voleva Deleuze, ma in un’ontologia dell’uguaglianza fraterna, quella per cui si diventa capaci di dare la vita per il più piccolo, per colui che non ci può restituire niente se non, nella logica dell’amore e proprio perché è fratello, qualche volta – ma neppure sempre – il suo sorriso.
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