Disarmo nucleare, il mondo e l’Europa
sabato 8 luglio 2017

L’era della deterrenza nucleare non è finita. E il lavoro sulla strada della pace naturalmente continua. Il voto dell’Assemblea generale dell’Onu per la messa al bando delle armi nucleari è chiaro, certo. Ed è molto importante e significativo. Ma non ha visto la partecipazione dei Paesi che detengono armi nucleari e delle nazioni loro alleate. La gran parte dei Paesi Nato – Italia compresa – ha scelto, infatti, di non partecipare.È maturato così un risultato confortante eppure deludente. Un risultato annunciato. Un mondo senza la Bomba non è purtroppo ancora immaginabile, perché è soprattutto chi della Bomba dispone che può e deve dare un contributo decisivo per disarmare la forza dell’atomo. Detto questo, sono almeno due le considerazioni da fare, segnando con speranza e realismo sul calendario della storia la data di questo voto.

In primo luogo, è necessario rilanciare la cooperazione internazionale sul tema della costruzione della pace e del disarmo a partire dalle armi convenzionali. Eliminare la Bomba sarà possibile solo quando esisteranno istituzioni globali in grado di mitigare i conflitti in corso senza l’uso della forza. Gli arsenali atomici, infatti, da alcuni sono interpretati come strumenti per una più efficace deterrenza, mentre da altri essi son interpretati solitamente come extrema ratio in caso di eventi bellici distruttivi. In entrambi i casi, la Bomba costituisce un tassello di sistemi di relazioni internazionali strutturati intorno a equilibri di potenza. Che si concretano e strutturano intorno ad arsenali militari, ma ne generano di sempre nuovi in un processo che si autoalimenta finché si arriva a un punto di non ritorno in cui gli equilibri rischiano di saltare. Molti infatti pensano che la deterrenza sia una forza stabilizzatrice, come durante la Guerra Fredda, ma la deterrenza basata sull’accumulazione di armi non ha prodotto solo stabilità: l’esempio più eloquente è la Prima guerra mondiale.

La Bomba, come strumento di deterrenza, appare più forte e persuasiva delle armi convenzionali, date le sue capacità distruttive, ma in concreto è l’assenza di istituzioni in grado di costruire la pace e di implementare il disarmo a costituire la vera minaccia. In questo senso, gli sforzi della comunità internazionale devono andare nella direzione di elaborare nuovi fori di dialogo e confronto che siano in grado di favorire la ricomposizione di divergenze e la cooperazione. Il disarmo, anche quello nucleare, seguirà nel momento in cui i Paesi percepiranno come credibili eventuali istituzioni «per la Pace».

In secondo luogo, bisogna aver chiaro che si ripresenta, anche in questo caso, il problema delle differenze in seno all’Unione Europea. Stavolta in ambito militare. Nei dibattiti sull’integrazione europea sta emergendo più chiara e da più parti l’esigenza di una convergenza delle strutture e delle organizzazioni di difesa. La strada da percorrere è difficile, ma rispetto al passato esistono dei segnali nuovi. Il ministro Pinotti qualche giorno fa twittava: «Sono state fatte delle scelte che obbligano le nazioni a mettersi insieme e fare programmi comuni».

Uno dei punti sul quale, però, è possibile che si arenino futuri processi di convergenza è esattamente quello della dotazione di arsenali nucleari. Nella Ue solo Regno Unito e Francia, entrambi membri Nato, dispongono attualmente della Bomba. Se la Brexit andrà in porto, l’Unione si troverà a provare una convergenza delle politiche di difesa in cui un solo Paese dispone di un arsenale nucleare. Potrebbe sembrare un vantaggio per la Francia negli inevitabili lunghi negoziati e che precedono qualsivoglia accordo di cooperazione, ma potrebbe risultare un serio ostacolo a una piena integrazione. Perché, in presenza di un attore percepito come eccessivamente dominante dal punto di vista militare, gli altri Paesi potrebbero non voler procedere. Il dubbio che la Francia possa avere delle tentazioni egemoniche, infatti, sarebbe condiviso da molti. Invero, un’Europa denuclearizzata sarebbe più semplice da integrare.

Le classi dirigenti e la società civile dei Paesi europei evidentemente devono interrogarsi su questo aspetto. Non ci si può estraniare dal giusto processo in corso e dichiararsi assenti in sede Onu. Non ci si può astenere all’infinito. Parlamento e Commissione europea dovrebbero cominciare a porre finalmente all’ordine del giorno temi di difficile risoluzione come questo. Gli Stati seguiranno.

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