sabato 8 marzo 2025
Il contenuto del piano Von der Leyen va discusso nel merito: non c’è dubbio che l’obiettivo finale deve essere la difesa comune e cioè un esercito europeo (non il riarmo dei singoli Stati)
Ursula von der Leyen

Ursula von der Leyen - Reuters

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Riarmare l’Europa perché oggi incombe su di essa il pericolo della Russia. Così è stata intesa l’affermazione di Ursula von der Leyen che oggi «la sicurezza dell’Europa è minacciata in modo serio», nella presentazione del piano Rearm Europe. Ma tale motivazione e lo stesso nome del piano sono pericolosi. Altra cosa è il suo contenuto, di cui è necessario discutere.

In politica però – soprattutto in quella internazionale – la forma è importante come la sostanza, a volte anche di più. Non si deve parlare di riarmo, infatti, ma di un sistema comune di difesa, per chiarire da subito che le armi in più di cui ci si vuole dotare non hanno alcuna finalità aggressiva.

Ancora più sbagliato sarebbe collegare questa scelta a un nemico specifico, la Russia: una organizzazione difensiva, infatti, non è mai contro qualcuno ma ha funzione preventiva erga omnes, soprattutto accompagnata dalla dimensione politico-diplomatica. Non a caso il piano Pleven, sostenuto da De Gasperi, Adenauer e Schuman tra il 1952 e il 1954, proponeva una Comunità europea di difesa ed esprimeva anzitutto una volontà di pace, impedendo ai Paesi europei di continuare a farsi la guerra come hanno fatto per secoli.

L’errore nasce dallo sgomento e dalla confusione in cui è precipitata l’Europa. Per non gettare benzina sul fuoco, le diplomazie europee evitano di parlare della causa di tutto ciò, ma ci sono pochi dubbi che tale causa sia Donald Trump. Per il presidente degli Stati Uniti, come disse infatti già nel 2018, l’Unione europea è «il suo principale nemico» (anche se non usò la parola «enemy» ma «foe» che si può tradurre come «nemico» ma ha anche le sfumature di «avversario, antagonista, oppositore»).

Allora, il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, liquidò l’uscita trumpiana come una «fake news», ribadendo l’amicizia tra Europa e Stati Uniti, e tutto finì lì. Ma oggi Trump, tornato alla presidenza, ribadisce la sua ostilità verso l’Unione europea - che sarebbe nata «per fregare» (ma il termine inglese è più crudo) gli Stati Uniti - e agisce di conseguenza. L’ostilità non è verso i Paesi del Vecchio continente, ma verso l’Ue e riguarda il terreno economico-commerciale. Le sconvolgenti conseguenze delle sue scelte, però, vanno molto oltre e investono anche il piano mi-litare, politico e diplomatico. (Probabilmente Trump non ne ha previste molte, agendo da “apprendista stregone” che mette tutte le cose in agitazione ma non è poi in grado di inserirle in un nuovo ordine). Per colpire l’Unione, infatti, il presidente americano non minaccia “soltanto” di imporre pesanti dazi sui prodotti che vengono dall’Europa – risparmiando la Gran Bretagna -, ma colpisce anche gli Stati europei sul terreno militare – compresa la Gran Bretagna.

Oltre a pretendere un contributo alle spese Nato ben più elevato dell’attuale, fa dubitare dello stesso impegno americano a proteggere i Paesi europei in caso di aggressione. In pratica, fa vacillare l’Alleanza Atlantica. Ad aggravare di molto le cose c’è che dal 2018 è successo praticamente di tutto - il Covid, l’Afghanistan, l’Ucraina ecc. – e la situazione mondiale è radicalmente cambiata. Così gli europei non si trovano solo a dover gestire la rivalità economico- commerciale con gli Stati Uniti ma anche a dover affrontare all’improvviso un problema di difesa militare proprio mentre sono coinvolti indirettamente in una guerra, in cui fino a ieri un ruolo preponderante era svolto dagli Stati Uniti. Difesa militare e guerra in Ucraina, infine, toccano lo stesso problema, la Russia di Putin, di cui oggi gli Stati Uniti sembrano quasi alleati. Di qui il rischio di cortocircuiti. Invece, guerra in Ucraina e difesa dell’Europa devono essere tenuti rigorosamente distinti anche se è impossibile separarli.

Una cosa, infatti, è far leva sul peso dell’Unione europea perché l’Ucraina ottenga la pace meno ingiusta possibile e garanzie vere per la sua sicurezza futura. Altra cosa, invece, è far balenare involontariamente un possibile conflitto con la Russia (non a caso, Putin e Lavrov hanno dato segni di nervosismo per le confuse iniziative europee, pur prendendosela soprattutto con la Francia, perché potenza nucleare e più determinata di altri). La confusione tra le due questioni attraversa anche il dibattito politico italiano. C’è addirittura chi brinda agli aggressori e ai loro nuovi alleati, contro le odiate Ucraina e Europa.

Diverso è ovviamente l’atteggiamento di chi dice che “non bisogna dividere l’Occidente”, ma nessun leader europeo vuole farlo: è oltreoceano che si è decisa l’attuale divaricazione e nessuno è riuscito a far cambiare idea a Trump. Rinsaldare l’unità europea è anche il modo migliore per tentare in futuro di riprendere la collaborazione occidentale. Con motivazioni diverse o addirittura opposte, importanti forze politiche italiane sembrano oggi convergere verso l’immobilismo o il basso profilo, ma ciò significa – volontariamente o involontariamente – scommettere sul fallimento dell’Europa e sull’irrilevanza dell’Italia, entrambi profondamente contrari all’interesse nazionale.

A differenza di titolo ed eventuali motivazioni, che vanno respinti, il contenuto del piano Von der Leyen va discusso nel merito. Non c’è dubbio, infatti, che l’obiettivo finale deve essere la difesa comune e cioè un esercito europeo (non il riarmo dei singoli Stati): sarebbe più chiara la finalità di pace, costerebbe di meno e avrebbe maggior efficienza. Ma l’iniziativa di Trump impone agli europei una scelta immediata e il più possibile condivisa, non per motivi militari ma politici: manifestare una comune volontà europea sembra oggi una strada senza alternative per rafforzare l’Ucraina, difendere l’Europa e, probabilmente, anche per cercare la pace.

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