mercoledì 27 aprile 2016
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Gentile direttore,
Poste Italiane Spa, con un avviso recapitato a tutti i residenti del Comune dove vivo, ha gentilmente informato che da questo mese la consegna degli invii postali, nonché la modalità di raccolta dalle cassette d’impostazione, sarà a giorni lavorativi alterni. Con questa decisione unilaterale, presa per poter rendere “sostenibile la fornitura nel tempo”, un altro servizio pubblico viene ridimensionato. La scelta di Poste Italiane non è che il risultato di un cammino ormai più che decennale mediante il quale, passo dopo passo, si è progressivamente ridimensionato, o cancellato, tutto quello che era considerato servizio pubblico. La costante demonizzazione di tutto ciò che è collettivo ha trasformato quello che un tempo era ritenuto un servizio per l’intera comunità, in un “prodotto” per il mercato. Dalla scuola, alla sanità, ai trasporti, alle poste, ormai tutto è “prodotto”, quindi tutto deve sottostare alla logica del profitto. Il caso del recapito postale ne è un chiaro esempio: sebbene le Poste non abbiano problemi di bilancio perché realizzano utili ingenti, si taglia sulla distribuzione degli invii, essendo questo solamente un costo per l’azienda. È più remunerativo vendere prodotti finanziari, telefonini o servizi di ogni genere, che consegnare lettere ai residenti che vivono in piccoli centri. Ovviamente, in una logica di puro mercato e non di bene comune, a nessun top manager di Poste Spa conviene proporre agli azionisti, di cui uno è lo stesso Stato italiano, di utilizzare anche un’infima parte degli utili della società per coprire i costi dei portalettere nei centri marginali di collina o di montagna. Il risultato di questo tipo di scelte scellerate per scuola, trasporti sanità e, ora, posta è sotto gli occhi di tutti: i piccoli centri si sono progressivamente spopolati, le giovani famiglie se ne sono andate, le attività commerciali locali hanno dovuto chiudere, i centri storici sono diventati centri fantasma e le comunità si sono frantumate. Appare chiaro che ormai non viviamo più in una Nazione, ma in uno Stato-Azienda. Parole come “bene comune, solidarietà, equità, giustizia sociale, corresponsabilità, compartecipazione, aiuto reciproco, accoglienza”, ecc., sono sparite dal vocabolario governativo per lasciare spazio solamente al lessico bocconiano del profitto. Come potrà funzionare uno Stato simile? Per forza di cose la dittatura del profitto porterà inesorabilmente alla fine della democrazia. Su questo bisognerebbe meditare prima che sia troppo tardi.
 
Sergio Moscone - Serralunga d’Alba (Cuneo)
Condivido il suo allarme, gentile signor Moscone. Si stanno creando condizioni sempre più ostili alla tenuta delle piccole comunità civili che costituiscono da secoli una delle più straordinarie ricchezze del nostro Paese: veri presìdi di umanità, speciali laboratori e guardianìe del nostro bellissimo paesaggio, giacimenti di tradizioni, di capacità di lavoro e di creativa valorizzazione dei doni della natura. L’impoverimento, il deliberato infragilimento, persino l’avvelenamento e, infine e per principio, l’abbandono della cosiddetta "Italia minore" (che ha sempre avuto un ruolo maiuscolo nella nostra vicenda comune) è il frutto di diversi fattori e aggressioni (anche criminali), ma non c’è alcun dubbio che pesi, e pesi enormemente, la desolante e devastante miopia messa in mostra in questi ultimi decenni da classi dirigenti nella migliore delle ipotesi disattente e superficiali, nella peggiore conniventi (per ideologia o per malizia). Lo dimostra ciò che lei denuncia, e cioè che tutto questo accada anche a causa della progressiva riduzione sino all’annullamento di servizi di base come quelli relativi a scuola, trasporti, sanità, posta… Servizi davvero essenziali e che sono stati sempre considerati indici della civiltà, dello sviluppo umano di un Paese. Ha proprio ragione, caro amico: non è inevitabile che si continui a scivolare lungo questo piano inclinato, bisogna decidersi a spezzare l’inerzia pericolosa che è stata sinora attivamente incentivata. Uno dei modi, a mio parere, è di liberarsi da un doppio equivoco. Il primo è quello per cui “efficienza” sarebbe sinonimo di “profitto”. Il secondo quello per cui il “profitto” non potrebbe mai essere anche “sociale”. Ci sono servizi dei quali uno Stato, una comunità nazionale degna di questo nome, garantisce la presenza e l’efficienza perché rappresentano in sostanza un investimento sul futuro e perché lasciarli deperire o smantellarli vuol dire tradire il patto Stato-cittadini che, in una democrazia seria, non prevede che lo Stato faccia tutto in prima persona, ma impone che stabilisca standard che non possono essere derogati da chiunque eroghi il servizio (realtà pubblica, privata o privatizzata che sia…). Non tutti i servizi di base assicurano necessariamente risultati immediatamente monetizzabili, anzi, alcuni per definizione sono "fuori mercato", ma non fuori ragione, e tutti insieme rappresentano la premessa perché il presente sia degno e il domani sia migliore dell’oggi. Fornire servizi di istruzione, di cura, di collegamento e di comunicazione (anche postale) è insomma un dovere civile, che non tollera sprechi né ingiusti vuoti. Non onorare ovunque e secondo non comprimibili livelli minimi di qualità tale dovere significa fare a pezzi diritti di cittadinanza solennemente affermati e disprezzare cittadini in carne e ossa. Per questo non ci stanchiamo, da cronisti e a nostra volta da cittadini, di mettere la politica e i “manager” che essa sceglie per governare scuola, sanità, trasporti e poste davanti alle proprie responsabilità.
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