sabato 11 dicembre 2010
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Quando la Chiesa proclama santo il fondatore di un ordine religioso c’è sempre un rischio: quello di considerare questo gesto un fatto in qualche modo "dovuto". I suoi religiosi hanno fatto tante cose pregevoli, dunque è giusto onorarlo. Ebbene, se questo atteggiamento non è mai quello che guida la Congregazione per le Cause dei santi, sarebbe doppiamente sbagliato utilizzarlo per la figura del beato Guido Maria Conforti, il fondatore dei Missionari saveriani, per il quale ieri, con la firma da parte del Papa del decreto sul miracolo, si è aperta la strada che porterà nel giro di pochi mesi alla canonizzazione. Non certo perché questa famiglia religiosa di cose straordinarie ai quattro angoli del mondo non ne abbia fatte: dall’Indonesia al Brasile, dalla Repubblica democratica del Congo al Messico, i missionari e le missionarie saveriane continuano a donare la loro vita per il Vangelo, accanto a popolazioni che spesso sono dimenticate da tutti. E quanto nel mondo siano un volto dell’Italia vera (quella che sta tra la gente e non nei salotti) lo sanno bene le migliaia di persone che nel nostro Paese ascoltano con amicizia le loro testimonianze quando rientrano a casa, sostengono i loro progetti di sviluppo, partecipano ai loro cammini di animazione, si lasciano interpellare dalle loro riviste e proposte culturali. Ma se ci fermassimo qui – appunto – sarebbe ancora troppo poco. Perché la santità è sempre qualcosa che è chiamata a scuoterci, più che a rassicurare. E allora la vera sfida è fare i conti proprio con la figura dell’arcivescovo Guido Maria Conforti. Accettando realmente che questo miracolo ottenuto per la sua intercessione sia un segno dei tempi che interpella la Chiesa italiana di oggi. Perché a leggerla bene la vita del fondatore dei saveriani è una bella provocazione per questo nostro tempo che parla molto di globalizzazione, ma fa un gran fatica a vivere l’universalità. Nell’Italia di fine Ottocento Conforti sognava di partire per annunciare il Vangelo agli estremi confini del mondo; ma non poté farlo per la sua salute fragile. Quell’ideale, però, era troppo grande per rinunciare e allora – nel 1895 – fondò una congregazione cui diede il nome di san Francesco Saverio, il grande missionario. Ma anche l’Italia di quegli anni aveva bisogno di testimoni del Vangelo e quel sacerdote – che guardava lontano, ma non era affatto indifferente a ciò che accadeva accanto a lui – non passò inosservato. Così divenne arcivescovo prima a Ravenna e poi a Parma, dove guidò la diocesi per venticinque anni. Però nel 1916 – mentre ancora in Europa infuriava la tragedia della guerra – non mancò di invitare Benedetto XV, una volta terminato il conflitto, a rilanciare l’invito missionario «andate in tutto il mondo...». E nel 1919 il Papa scrisse la lettera apostolica Maximum illud, pietra miliare della storia della missione. Dentro l’Italia fino in fondo, ma con un cuore capace di abbracciare davvero il mondo: questo è lo stile di vita e il messaggio che Guido Maria Conforti ha da trasmettere al nostro tempo. Ricordandoci che la missione "ad gentes" non è un compito superato per il cristiano di oggi. E che se anche «c’è tanto da fare qui», donare dei propri figli alla testimonianza del Vangelo in Paesi lontani per la Chiesa italiana non è affatto un lusso. Guardando alle nostre parrocchie in termini di vocazioni tante volte l’impressione è che corriamo il rischio di abituarci più a ricevere che a dare. Non è che forse il dono di questo nuovo santo oggi vuole dirci anche questo?
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