Ddl Zan, il grave rischio che il Pd deve vedere
martedì 4 maggio 2021

Caro direttore,

non so, francamente, se nella pubblica opinione e forse anche in chi deve decidere vi sia piena consapevolezza di ciò che l’approvazione definiva della proposta di legge Zan può comportare. Penso peraltro che lo sconsolante psicodramma nazionale di questi giorni – frutto della consumata e redditizia abilità del rapper Fedez, della sprovveduta ingenuità della dirigenza Rai (ma quale arcigno e autoritario sistema di censura?) e della tendenza ormai palese di una larga parte della politica a seguire supinamente ogni onda che appaia sui social – accresca ancora di più lo scarto tra la realtà e la sua rappresentazione. Lo scontro tra «oscurantismo omofobo » (ben visibile, naturalmente, nelle ormai famose dichiarazioni di esponenti di una certa destra citata dal rapper) e «cultura dei diritti civili» non rende pienamente l’idea, anche se ne mostra un censurabile e indegno spaccato. Ma la banalizzazione semplificatrice, assecondata e accreditata da un sistema di comunicazione sociale ormai refrattario alla riflessione ragionata e alla capacità di 'stare nel merito' giuridico e sostanziale delle questioni, non aiuta mai a farsi una idea compiuta delle cose.

È diventata, infatti, diffusa opinione che con questa legge si intenda perseguire con maggiore severità i comportamenti discriminatori o a vario titolo violenti – non solo fisicamente – motivati da pregiudizi legati alle scelte di preferenza sessuale delle persone. Obiettivo serio e pienamente rientrante nella cultura democratica dei diritti personali e civili. Se si ritiene, motivatamente, che le leggi esistenti al riguardo non siano sufficienti, è giusto integrarle e potenziarle. Con l’avvertenza che, in questo come in altri casi, l’opzione dello strumento penale (che da qualche anno a questa parte ha avuto un ruolo oggettivamente eccessivo se non esclusivo) va usata con saggezza e responsabilità.

La realtà è che la proposta Zan non è solo (e non è principalmente) questo. Nell’articolo 1 viene specificato che «per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Mi chiedo, e so di non essere affatto il solo: è saggio, sull’onda della «cultura dei diritti» e della giusta lotta alla discriminazione omofobica, sancire in una legge dello Stato un mutamento di paradigma antropologico di tale portata? Finora l’obiettivo (non ancora raggiunto) era la lotta alle discriminazioni basate sul sesso e il perseguimento della parità di genere: oggi diventa la negazione della diversità stessa tra maschio e femmina e l’affermazione della sola 'percezione personale' (con la sua coessenziale mutevolezza) come fondamento della propria identità di genere. Si è discusso adeguatamente – in Parlamento e soprattutto nella comunità – di ciò che questo comporta sul piano etico, sociale e culturale? Si ritiene davvero che, così, la norma (con la sua presunzione 'definitoria' e con i previsti obblighi di educazione in tal senso anche nelle scuole) corrisponderebbe alla comune sensibilità del popolo? A me pare assolutamente di no: temo proprio che si rischi di fare una scelta legislativa lontana dal 'comune sentire del popolo'. E quando l’interpretazione dei 'diritti' viene declinata da una élite in termini esclusivamente individualistici ed è dissociata dalla benché minima dimensione sociale e comunitaria, non è mai segno di una buona stagione.

Mi auguro che prevalga in extremis nelle forze politiche – e soprattutto nel Pd – un sussulto di ragionevolezza, come richiesto anche da molti militanti di quel partito e del centrosinistra oltre che da non poche associazioni impegnate da sempre proprio nel campo dei diritti civili.

Una legge scritta male non deve essere sostenuta solo perché Matteo Salvini la osteggia e un astuto rapper di successo la sponsorizza come fosse una delle costose cremine vendute dalla sua ancor più astuta signora.

già parlamentare della Repubblica

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