Dare voce e forza alla nonviolenza che resiste a ingiustizia e guerra
martedì 17 maggio 2022

L’intensificarsi della nuova fase del conflitto armato in Ucraina, dovuto all’aggressione decisa da Vladimir Putin, ha riportato i concetti di guerra, pace e resistenza al centro del dibattito pubblico. Ma quando si entra in quella che l’antropologo Roger Caillois chiamava l’«irresistibile vertigine della guerra», che si impadronisce di menti e azioni, non lasciando spazio al pensiero complesso e oscurando persino la possibilità di dibattito.

La 'resistenza armata' diventa così sinonimo di 'pace' che, dal canto suo, acquista senso e valore solo se a sua volta armata. Il pacifista, categoria indefinita e indefinibile, diventa il fautore della resa, o addirittura il 'filo-putiniano' accusato persino di complicità col tiranno di turno e, perciò, di avere le mani sporche del sangue degli ucraini. Nei giorni scorsi, prima dell’ancora timida svolta lessicale di alcuni leader europei (ma non della gran parte dei media), che in queste ore sta facendo recuperare aanche toni e riflessioni più controllate, puntando al cessate il fuoco e a una ripresa dell’azione politico-diplomatica, un grande giornale aveva ha titolato «A Bucha è stato infranto il confine tra la guerra e la barbarie», dimenticando che la guerra è sempre un’aberrazione.

E non è neppure ineluttabile, come in tanti pensano e vorrebbero far credere, ma il risultato della determinazione ad annientare il nemico di turno. Per questo non può mai essere strumento di pace. Sembra una banalità, ma evidentemente non lo è. La guerra è il residuo di una modalità di intervento sul conflitto arcaica e inefficace, come decenni di ricerche sui conflitti ci hanno dimostrato: le guerre raramente so- no di breve durata e di bassa intensità e con il tempo tendono a infliggere alle popolazioni civili sofferenze sempre maggiori. La violenza, infatti, genera violenza che finisce per diventare indiscriminata.

Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki, l’obiettivo in quel caso era piegare la popolazione civile per costringere il governo giapponese alla resa. La stessa cosa sta succedendo in queste settimane in Ucraina, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Si può obiettare che di fronte all’orrore della guerra, è difficile pensare con una logica di pace. È così, soprattutto se si è 'analfabeti del conflitto'. Papa Francesco definisce il ricorrere a schemi di guerra una sorta di «cainismo esistenziale», che è legato al voler primeggiare a ogni costo in un mondo ancora ostaggio della «volontà di potenza». Armare gli aggrediti sembra essere, perciò, l’unica risposta possibile e la via della pace una irrealizzabile utopia.

Questo succede perché, nonostante milioni e milioni di persone siano contro la guerra, esse spesso non hanno gli strumenti per affrontare le complessità dei conflitti e finiscono perciò per invocare le armi per sconfiggere l’aggressore. Chi, infatti, alla luce dei gravissimi crimini perpetrati dalle forze russe in Ucraina, si azzarderebbe a mettere in discussione la necessità di sconfiggere, costi quel che costi, il 'nuovo Stalin' in nome della libertà dell’Ucraina e dell’intero mondo democratico? Tutto sembra essere concesso pur di fermarlo. Eppure numerose ricerche empiriche hanno dimostrato che la risposta armata è meno efficace e più disatrosa per i popoli della difesa disarmata e nonvio-lenta, anche contro i despoti-tiranni.

Che fare allora concretamente? Si può cominciare con il rompere gli schemi di azione- reazione, con il riformulare l’aggressione fuori di una logica bellica che necessita di un vincitore e di uno sconfitto, e lavorare, sul piano politico-diplomatico e direttamente sul terreno, per riportare lo scontro a dimensioni più umane. Invece di caldeggiare l’invio di armi sempre più sofisticate e 'intelligenti', promuovere e sostenere attivamente scelte e culture di pace e fornire strumenti per affrontare il conflitto in maniera nonviolenta.

Questo implica forse il rimanere inermi, il non condannare le azioni di Putin o il negare l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia? No. Significa anche usare la forza, ma rifiutare la violenza sistematica e, dunque, sempre sporporzionata. Significa provare a costruire la pace con la pace e non con la guerra, consapevoli del fatto che una escalation, ora, nell’era atomica, può significare distruzione dell’umanità. Nelle ultime settimane ci sono state moltissime azioni contro la guerra e per la pace sia in Ucraina sia in Russia. Questo giornale, il 18 marzo ci ha raccontato che il direttore musicale del teatro Bol’šoj e dell’Orchestra Nazionale di Tolosa, Tugan Sokhiev, si è dimesso da entrambi con effetto immediato «contro la guerra, ma anche contro chi vorrebbe 'assoldare' mu-sicisti, compositori, artisti vivi e morti, senza rendersi conto che la musica e la cultura sono ponti, non muri».

Migliaia di persone, soprattutto donne, rischiando moltissimo, si sono mobilitate contro la guerra anche in Russia escogitando modi creativi per esprimere il loro dissenso, ad esempio scrivendo slogan contro la guerra su banconote o dentro libri 'dimenticati' alle fermate o sui bus, indossando nastri verdi, vestendosi di nero in segno di lutto o disegnando graffiti in giro per le città, manifestando in piazza persino il 9 maggio, nel giorno delle grandi parate in memoria della vittoria sul nazismo. Queste pratiche di pace sono oscurate dal fracasso della chiamata alle armi, ma ci sono. Pesano. E sta a tutti noi dare loro voce e più forza.

Sociologa dei conflitti e della pace Università di Pisa

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