sabato 16 gennaio 2010
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Caro Direttore, sono appena rientrato da Pantelleria, un’isola meravigliosa dalla cui sommità ieri si scorgeva la costa africana. Ho trascorso lì un paio di giorni per una serie d’incontri con la comunità cristiana che vive su questo enorme scoglio di lava battuto costantemente dal vento. Da quelle parti il dio Eolo è così prepotente che mercoledì le raffiche hanno raggiunto i 70 nodi e l’aeroporto è rimasto chiuso tutta la giornata. Approfittando del silenzio e di qualche scampolo di tempo concesso dalla Provvidenza, ho pregato per te, caro direttore, e la tua redazione. Sì, il pensiero s’è rivolto quasi istintivamente a voi in occasione della premiazione di sabato a Milano. Come puoi immaginare, è un privilegio per me ricevere il Premio giornalistico Giuliano Ragno, dedicato all’indimenticabile inviato speciale e poi vicedirettore di Avvenire, prematuramente scomparso dodici anni fa. Tornando indietro con la memoria, ricordo di averlo incontrato un paio di volte a Milano e in diverse circostanze ebbi modo di parlargli telefonicamente, in particolare quando ero in Africa, al New People Media Centre di Nairobi. La sua testimonianza ci aiuta ancora oggi a comprendere che il giornalismo non è solo una professione, ma è anche e soprattutto una missione che voi state onorando con grande dedizione. D’altronde, come scriveva un altro autorevole esponente del giornalismo cattolico italiano, il compianto don Claudio Sorgi, «dare notizie e commentarle non può mai essere solo un mestiere. Si ha un bel dire che quella del giornalista sta per diventare una professione in camice bianco e tutta computerizzata. Dare notizie e commentarle significa sapere capire quali sono le vicende degli uomini che ne fanno giorno per giorno la storia. Ma non la storia giudiziaria, o cronachistica, o politica, o la storia di una coalizione o di una giunta o di una autorità qualsiasi. La storia dell’uomo: il suo pianto e la sua gioia, la sua disperazione e la sua ostinata voglia di vivere». Da questo punto di vista il giornalismo nostrano ha davvero bisogno di "redenzione", non foss’altro perché troppo spesso, da una parte o dall’altra, diventa strumento di propaganda che misconosce, alla prova dei fatti, la sfera dei valori. Ecco che allora oggi, più che in passato, occorre fare tesoro dell’insegnamento del più grande comunicatore di tutti i tempi, Gesù di Nazareth. Quando Egli diceva ai suoi discepoli «quello che avete visto e ascoltato gridatelo dai tetti», non dava soltanto un insegnamento in forma di parabola, ma proponeva una vera strategia relativa alla missione. E parlare dai tetti, oggi, significa aumentare l’audience. È evidente che il Vangelo si riferisca al Verbo. Ma credo che per un giornale come Avvenire questa urgenza sia da sempre una sfida nel tentativo di coniugare spirito e vita. E se da una parte è vero che nulla di ciò che è del mondo può essere assunto acriticamente dalla Chiesa, essa ha però il diritto-dovere di cogliere le opportunità che il progresso le offre per favorire la missione. E non v’è dubbio allora che il terreno su cui misurare la possibilità di un rilancio del giornalismo è la riscoperta della propria identità e dunque delle proprie radici. Guai a perderle. Ciò non significa annullare le diversità o le distinzioni; semmai combattere le chiusure, il pregiudizio e il settarismo sull’esempio di Cristo, medium per investitura divina, che si annullò sulla Croce nel suo essere "Parola", perché era il tempo della comunicazione estrema tra Dio e l’uomo. È qui la responsabilità di «dare voce a chi non ha voce», ai reietti della Storia, dai profughi del Darfur ai terremotati di Haiti… Ed è quello che voi, come redazione, state facendo egregiamente. Grazie, caro direttore, e davvero buon "Avvenire" al nostro giornale.
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