venerdì 23 agosto 2013
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Armi chimiche usate dall’esercito siriano? O, invece, dalle stesse forze ribelli al regime? Politologi e esperti ne discutono con accanimento, ma chi affronta le decine di video scaricati sul Web da martedì mattina si domanda se davvero è fondamentale la questione del “chi” abbia provocato la strage a Est di Damasco, tra le cui vittime si vedono anche centinaia di bambini. A meno di non reagire come alcuni, sul sito on line di un quotidiano, che gridano di immagini false, di imbrogli mediatici imbastiti per suscitare un intervento internazionale in Siria. Invidiabile certezza, che quelle riprese atroci siano solo una messa in scena. Cerchi di convincertene anche tu, ma devi ammettere che le “comparse” dei video sono maledettamente brave, e i registi, da Oscar; per non parlare di quei bambini, la cui asfissia “fasulla” è atrocemente ben resa nell’affanno del respiro, nello scuotersi spasmodico del piccolo torace. E quel soccorritore che ha una bambina molto piccola in braccio, cianotica e inerte, e la scuote prima come sperando ancora di rianimarla, e poi con disperazione e infine con rabbia, come una povera bambola rotta? E gli uomini con le braccia paralizzate e levate in aria, scosse da un inarrestabile tremito? Per quanto ci si sforzi, guardando quei video sembra molto difficile non riconoscere che a Goutha, a Est di Damasco, l’altra mattina sia successo qualcosa di tremendo; e questo indipendentemente dal “chi” sia il responsabile. Perché si può sostenere, certo, che sarebbe assurdo da parte dell’esercito di Assad usare i gas mentre ci sono nel Paese gli osservatori dell’Onu; o che questa è solo una manovra per giustificare un intervento armato degli Usa. Ci si può perdere nei meandri delle ideologie e delle dietrologie. Ma quel bambino senza una ferita, agonizzante sotto la maschera dell’ossigeno, non sembra proprio teatro. E non ci si può contentare di dirsi: forse non è vero. Occorre poter escludere che sia stato possibile un massacro di civili con armi chimiche. Come ha chiesto il Consiglio dell’Onu, a dire il vero timidamente e a bassa voce, forse per non disturbare. E agli osservatori internazionali sarà consentito di andare a verificare di persona, nelle zone interessate? Chissà. Sotto il fuoco dei veti incrociati delle grandi potenze, nel calcolo di interessi politici e economici aperti o oscuri, ciò che sembrerebbe semplice sprofonda in una nebbia fitta. Come se non fosse cambiato il mondo, in questi ultimi decenni, con il Web e i cellulari a portata di tutti: così che un massacro in una regione lontana ci piomba dopo poche ore sullo schermo del pc di casa, e ci viene mostrata ogni cosa. Certo, davanti alla tv la sera ci sono i bambini, e sui tg quelle immagini non sono passate. Ma noi, adulti, abbiamo il dovere di guardare. Senza scappare nel dibattere soltanto “chi” è stato, o sforzarci di credere a una corale, grandiosa messa in scena a uso di grandi potenze guerrafondaie. Non accadeva, fino a pochi anni fa, che un massacro potesse arrivare quasi in diretta sotto ai nostri occhi. I nostri padri, delle atrocità peggiori dell’ultima guerra, hanno potuto dire: noi non sapevamo, noi non vedevamo. Ciò che accade alla periferia di Damasco invece ce lo hanno fatto vedere (solo una piccola parte, se si pensa che i morti in Siria sono ormai centomila, e milioni i profughi). Il dovere morale di guardare, senza voltare la testa. Altrimenti quell’inerzia che in tanti rimproveriamo all’Onu e alla comunità internazionale è solo uno specchio della nostra collettiva inerzia di occidentali, che a parole amano la pace ma, soprattutto, la loro. Perché il giorno che si saprà esattamente che cosa è successo il 21 agosto 2013 a Goutha, all’alba, noi non potremo dire: non sapevamo. Quei bambini rantolanti, quei giovani inerti a braccia spalancate come Cristo in croce li abbiamo visti anche noi. E anche quella bambina di due anni a capo chino, immota – come una povera bambola rotta.
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