venerdì 21 agosto 2015
​Radicale, marxista. E favorito. Il veterano della sinistra, 66 anni, che non ha mai digerito la svolta moderata strizza l'occhio a Podemos e Syriza e mette in fibrillazione il partito.
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Quando Ed Miliband, il leader del Partito laburista britannico, ha perso in maniera inaspettatamente netta le elezioni legislative dello scorso 7 maggio e ha immediatamente annunciato le proprie dimissioni, le principali caratteristiche che la campagna elettorale per la scelta del nuovo leader ha finito per assumere erano del tutto imprevedibili. Il primo dato di questi ormai tre mesi di campagna è infatti l’assenza delle figure di maggior prestigio nel Partito Laburista, che hanno rifiutato di scendere in campo. Per diversi motivi sono rimasti fuori l’ex Cancelliere dello Scacchiere del governo 'ombra', Ed Balls, che ha perso il suo seggio in Scozia, dove il Partito laburista è stato spazzato via dall’irresistibile ascesa del Partito Nazionalista scozzese; l’ex ministro Alan Johnson, che solo un anno fa appariva come l’alternativa interna più credibile a Miliband, da alcuni ritenuto privo di un profilo adatto a competere vittoriosamente per la carica di Primo ministro; il brillante deputato blairiano di colore Chuka Umunna, presentato dai media come il possibile Obama britannico, che ha temuto un eccesso di attenzione sulla sua vita privata; e soprattutto David Miliband, il fratello maggiore di Ed, da questi sconfitto sul filo di lana nella corsa alla leadership del 2010, quando molti osservatori ritennero che il partito avesse scelto il Miliband sbagliato (che prevalse grazie al voto speciale allora riconosciuto ai sindacati, mentre David aveva avuto più voti fra i membri del partito). In seguito alla fuga delle figure carismatiche, la corsa alla leadership si è ristretta a una gara tra quattro candidati di secondo piano, ma ciò non ha impedito che emergesse una candidatura (inaspettatamente) forte – quella di Jeremy Corbyn – con un programma di cambiamento radicale di ciò che il partito laburista è stato negli ultimi trent’anni. Quando la corsa alla leadership è iniziata, con la presentazione delle dichiarazioni di sostegno alle candidature da parte dei membri del gruppo parlamentare laburista, il candidato da battere era il 45enne Andy Burnham, già ministro 'ombra' della sanità sotto Miliband, che aveva ottenuto il sostegno di 68 deputati su 235 e che si propone come un mix fra lo spirito vincente di Tony Blair e la maggiore sensibilità sociale del leader uscente. Il centro del partito (riconducibile – un po’ schematicamente – alla svolta a sinistra del New Labour realizzata prima da Gordon Brown e poi dallo stesso Ed Miliband) si è infatti diviso fra lo stesso Burnham e l’ex ministro della famiglia di Tony Blair, Yvette Cooper, ministro 'ombra' dell’Interno dopo il 2010, che ha ottenuto il sostegno di 59 deputati. Seguivano la rappresentante della destra blairiana, la 44enne Liz Kendall, con 41 nominations e, fanalino di coda, il veterano della sinistra laburista, Jeremy Corbyn, con appena 36 nominations. Se, dunque, a scegliere il leader del partito fosse stato il gruppo parlamentare – come avveniva sino ad alcuni decenni orsono – la competizione sarebbe stata limitata ai primi due candidati. Ma le procedure per la scelta del leader sono state più volte modificate negli ultimi anni e nel 2014 il Labour Party ha adottato regole più simili alle 'elezioni primarie' aperte ai non iscritti che ad una tradizionale elezione interna, limitata ai membri del partito: oltre a questi ultimi (i 200.000 iscritti al momento delle dimissioni di Miliband, e i 42.000 nuovi membri iscrittisi da maggio ad oggi), hanno infatti diritto di voto anche coloro che si sono registrati come 'supporters' fra l’apertura della procedura di selezione ed il 12 agosto. Ed i nuovi registrati sono ben 400.000: essi hanno pagato una quota di 3 sterline e stanno ricevendo, dal 14 agosto in poi, il kit e le credenziali per votare. Il voto avverrà per posta o on line, fino al 10 settembre, in modo che i risultati possano essere annunciati al Congresso straordinario del partito in programma a Westminster per il 12 settembre. Il dato inatteso è che la registrazione dei nuovi sostenitori non è stata spontanea ed asettica. Oltre ad alcune azioni di disturbo da parte di membri di altri partiti, sembra essersi verificato un afflusso in massa, organizzato dall’esterno da alcuni sindacati e da gruppi di pressione di estrema sinistra, per condizionare la competizione per la leadership. E questo afflusso ha determinato l’irresistibile ascesa (il cosiddetto surge) del candidato inizialmente meno quotato, Jeremy Corbyn, che alcuni sondaggi danno in questi giorni per vincitore con la maggioranza assoluta dei consensi. La personalità di Corbyn è assai controversa: dietro tratti umani semplici e modesti, si nasconde una proposta politica che è stata qualificata nei media come 'socialista', 'radicale' o 'populista di sinistra'. Deputato per il collegio di Islington North dal 1983, il 66enne Corbyn è un veterano di quella sinistra laburista che non ha mai digerito la svolta moderata delineatasi gradualmente nel partito prima con Neil Kinnock (1983-1992), poi con John Simon e infine, dopo la morte di questi nel 1994, con Tony Blair, che ha portato alla teorizzazione di una 'terza via' fra socialismo e liberismo, abbandonando lo statalismo e lo stretto intreccio con i sindacati che aveva segnato la storia del Labour Party dalla fine dell’800 agli anni settanta. Poiché Corbyn è sulla scena da un trentennio, sia pur sempre in minoranza, varie sue posizioni sono ben note, e sono state riproposte in questi giorni: la rinazionalizzazione di poste e ferrovie (senza escludere la possibilità di reinserire nella 'Costituzione' del partito laburista la famosa 'clausola 4', in cui il Partito si impegnava in favore della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, sia pur come obiettivo di lungo termine e che fu soppressa sotto Blair); l’aumento delle le tasse sui ceti più abbienti; la costruzione di 200.000 nuove abitazioni sociali, per contrastare l’incremento del prezzo degli alloggi; l’apertura in materia di immigrazione; l’uscita dalla Nato e dall’Unione europea (vista, quest’ultima, come un ostacolo al rilancio delle politiche sociali); il dialogo con Hamas ed Hezbollah come condizione per la pace in Medio Oriente. Un approccio che, pur non configurandosi tecnicamente come marxista, rivaluta Marx (dal quale, secondo una frase di Corbyn più volte citata dai suoi critici, la politica odierna ha ancora molto da imparare), contesta radicalmente le politiche di austerità e rivendica cambiamenti radicali non solo del Partito Laburista, ma del sistema politico britannico nel suo insieme. In alcune sue interviste Corbyn non ha esitato a manifestare la sua simpatia verso il populismo di sinistra oggi emergente, citando gli spagnoli di Podemos, i greci di Syriza e la candidatura presidenziale di Bernie Sanders negli Stati Uniti. Insomma, un precipitato dei luoghi comuni della sinistra radicale, convinta che sia necessario chiudere la fase storica aperta – non solo nel Regno Unito – da Margaret Thatcher nel 1979, anche se non viene spiegato perché l’Inghilterra di oggi sarebbe migliore di quella del lungo 'inverno dello scontento' che – fra scioperi, statalismo e deindustrializzazione – aprì la via, 36 anni fa, alla Lady di ferro. Le reazioni all’ascesa di Corbyn non si sono fatte attendere. L’ex primo ministro Tony Blair ha denunciato la sua candidatura come una minaccia mortale per il Partito Laburista in quanto partito di governo, affermando che la scelta di un candidato estremista renderebbe 'non eleggibile' il Partito alle prossime elezioni, un po’ come il ripiegamento dei laburisti su Michael Foot nel 1979 lo tenne lontano dal numero 10 di Downing Street per 18 anni (aprendo fra l’altro la via a una scissione a destra nei primi anni ottanta). E nello stesso senso si sono pronunciati altri leaders del recente passato come Gordon Brown e Peter Mandelson. Ma la forza di Corbyn, in questo momento, sta nella radicalizzazione (in parte teleguidata dall’esterno) dell’elettorato che dovrà scegliere il nuovo leader, secondo modalità che ricordano l’ascesa di Renzi nel Partito democratico, anche se con orientamenti politici opposti. Un elettorato – composto da una piccola minoranza degli elettori inglesi e anche di coloro che hanno votato Labour a maggio – che vuole un Partito laburista con un’identità molto chiara, capace di contrastare l’austerity con un messaggio saldamente ancorato nella tradizione socialista del partito. Poco importa che ciò riduca al lumicino le possibilità di Corbyn di guidare i laburisti alla vittoria nelle elezioni del 2020 (quando, fra l’altro, il probabile nuovo leader avrà 71 anni, e sarà quindi il più anziano candidato premier dai tempi di Churchill). Del resto molti credono che le chances dei laburisti di vincere le prossime elezioni – per le quali servirebbe uno spostamento di voti del 12 per cento, ritenuto poco probabile – sarebbero comunque minime, anche se a prevalere fosse uno dei tre candidati più moderati, a meno di un improbabile recupero del radicamento elettorale del partito in Scozia, cancellato nel voto di maggio. E uno scenario in cui non è necessario formulare proposte realistiche per governare è il paradiso della sinistra populista, di quella inglese come delle altre.
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