venerdì 29 luglio 2011
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L'emergenza umanitaria nel Corno d´Africa rappresenta una catastrofe che non può lasciare indifferenti, come questo giornale continua a sottolineare. E mentre le grandi cancellerie sembrano uscire dal letargo – mercoledì è finalmente scattato il ponte aereo tra il Kenya e la Somalia (fortemente condizionato dai combattimenti in corso) e contestualmente la Commissione Europea ha stanziato 27,8 milioni di euro –, si acuisce la frustrazione rispetto a questo genere di calamità e parallelamente si evidenzia sensibilmente la necessità di riformare il nostro modo di fare cooperazione. Se da una parte è doveroso aiutare chi soffre d´inedia e pandemie attraverso le organizzazioni non governative e missionarie, dall’altra occorre operare un serio discernimento dopo tanti fallimenti da parte del macchinoso sistema degli aiuti internazionali. Il fatto stesso che si continui a passare ogni anno da una crisi all’altra, ostentando una cinica rassegnazione, dimostra che non esiste un modello di sviluppo vincente se si prescinde dalla profondità e complessità della condizione umana e delle diversità culturali dei popoli su scala planetaria. Risulta illuminante a questo proposito il Rapporto sullo sviluppo umano 2010 che ben illustra quanto sta accadendo in molte aree depresse del nostro pianeta. Il paradigma dello sviluppo, in un mondo globalizzato, dovrebbe essere concepito come affermazione sacrosanta di diritti inviolabili della persona umana. Ecco che allora ogni legislatore attento al bene dei popoli dovrebbe riconoscere che le componenti dello sviluppo vanno ben al di là del tradizionale "intervento tampone" per tacitare le coscienze, e riguardano il riconoscimento fattivo e dunque la globalizzazione dei diritti, la salute, l’istruzione; la partecipazione politica e la coesione sociale. La posta in gioco è alta se si considera che la visione attuale della cooperazione è contrassegnata molto spesso dall’efficientismo occidentale secondo cui tutto deve uniformarsi allo schema concepito a tavolino dagli esperti del settore. Un indirizzo che ha generato, proprio a causa di questo centralismo decisionale, un fenomeno aberrante, quello dello sradicamento degli interventi umanitari dal territorio, con la complicità dei donatori internazionali. È dunque doveroso in questa circostanza fare tesoro dell´ammonizione formulata da Benedetto XVI nell´enciclica Caritas in Veritate, laddove è auspicata la creazione di «un’autorità politica mondiale», che «dovrà essere regolata dal diritto», avendo come bussola i principi di sussidiarietà e solidarietà. «Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale – scrive il Pontefice – esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione». In sostanza si tratta di andare oltre l’approccio paternalistico, tipico di certa propaganda assistenziale che acuisce la dipendenza dei Paesi del Sud del mondo. Non basta neppure concepire gli interventi trasferendo da un continente all’altro l’enciclopedia dei saperi e delle conoscenze, ma occorre essere determinati nella promozione della crescita integrale della persona e delle comunità riconoscendone i diritti inalienabili. Come ha sottolineato pertinentemente il professor Felice Rizzi, «troppo spesso la lotta contro la povertà diventa l´applicazione delle logiche umanitarie di urgenza che non incidono sulle cause del sottosviluppo». La cooperazione, dunque, va vista come un cambiamento radicale nella visione degli obiettivi dello sviluppo, e come rimodulazione dei meccanismi economici e sociali che impediscono il conseguimento di questi obiettivi. La povertà è un processo di esclusione determinato dalle ineguaglianze di un sistema strutturale incentrato sui privilegi di pochi, negando il primato dell´uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Ben vengano dunque i summit contro la fame, a condizione che non si riducano alla solita colletta nei confronti di chi invece invoca giustizia
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