martedì 20 luglio 2010
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Meno di cento persone nella serata di domenica a sfilare per le vie di Palermo. Pochi di più ieri mattina a presidiare via D’Amelio. Troppo pochi? Troppe assenze? Sarebbe facile dire che Palermo non vuole ricordare Paolo Borsellino. Che in Sicilia e, più in generale, nel Paese è calata la tensione per la legalità. «Io ricordo ogni giorno Paolo Borsellino e le altre vittime della mafia, come Giovanni Falcone. Oggi sono qui perché è un’occasione particolare, ma non c’è giorno che io non pensi a loro», dice il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Già, ogni giorno. E il concetto lo ripete Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso da Cosa nostra (ma, probabilmente, non solo...). «Mi sono stufata di contare le persone e di fare confronti con l’anniversario della morte di Falcone. La vera antimafia si fa ogni giorno senza stare attenti ai numeri».È proprio vero. Non è la ritualità delle manifestazioni, il retorico ricorso a cortei e proteste, una sorta di "compagnia di giro dell’antimafia", ad essere la carta vincente. Tantomeno quella che, come ieri (isolata, comunque), contesta questa o quella presenza politica: Borsellino, come tutti i servitori dello Stato, non aveva colore politico. L’antimafia più efficace, quella che dura, che fa più male alle cosche, è quella quotidiana, silenziosa ma anche per questo più dirompente. Quella che non strilla, e fa. Come i familiari delle vittime di mafia, che – nonostante il dolore e la solitudine – vanno nelle scuole per tenere viva la memoria di chi ha dato la vita per la legalità. Come i tanti sacerdoti che puntando sui giovani, danno loro una speranza e valori diversi, e tolgono terreno fertile alla colonizzazione mafiosa. Come le cooperative di giovani coraggiosi e intraprendenti, che sulle terre confiscate ai boss producono lavoro pulito e un futuro migliore. Come gli imprenditori che dicono "no" al pizzo, ma anche alle collusioni, ai facili arricchimenti, per un’economia libera e trasparente. Come i magistrati e gli uomini delle forze dell’ordine che con fatica, mezzi scarsi, poco palcoscenico, riescono tutti i giorni a colpire l’esercito mafioso, i suoi capi, le sue ricchezze e chi, per convenienza, con questo esercito si allea, invece di combatterlo. Insomma ricordare è un dovere, agire concretamente ancora di più.Memoria e impegno. Proprio Paolo Borsellino il 23 giugno 1992, nella chiesa di San Domenico a Palermo, a trenta giorni dalla scomparsa dell’amico Giovanni Falcone, e a meno di un mese dalla strage di via D’Amelio, così chiudeva il suo ricordo: «Abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli». Parole di una straordinaria attualità. Soprattutto in questi giorni nei quali termini come «rispetto delle leggi», «dovere», «valori» sembrano dimenticati da troppi, anche nei palazzi del potere.Ricordare Borsellino, Falcone, gli uomini che li proteggevano e i tanti che hanno dato la vita sul fronte del contrasto alle mafie, vuol dire allora – come diceva il magistrato – credere e testimoniare. Ci sarà il tempo per manifestare, deve esserci soprattutto quello per operare. Ogni giorno, dai quartieri periferici delle città del Sud ai paesini dell’Aspromonte, dagli agglomerati campani alle metropoli del Nord, nuova frontiera degli affari mafiosi. Passo dopo passo, goccia dopo goccia. Ogni giorno.
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