martedì 24 marzo 2020
La fede di chi non si è risparmiato per stare vicino ai malati e ai sofferenti: sono medici, missionari, suore, laici. In tanti hanno dato la vita nello sforzo di salvare quella degli altri
Carlo Urbani, morto all’ospedale di Bangkok a 47 anni nel 2003, «scoprì» la Sars

Carlo Urbani, morto all’ospedale di Bangkok a 47 anni nel 2003, «scoprì» la Sars

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«O mio Dio, dovrò morire sulla breccia, nell’esercizio del mio dovere, ma fa’ che io sia l’ultimo ». Chi ha pronunciato queste strazianti parole è il dottor Matthew Lukwiya, stroncato dal virus Ebola il 20 novembre 2000 nell’ospedale St. Mary di Gulu, in Uganda. Oggi, giornata in cui ricordiamo i missionari martiri, quell’invocazione appassionata ben si presta a introdurre questa carrellata di medici e infermieri che – come sta accadendo per tanti camici bianchi alle prese con l’epidemia di Coronavirus – hanno testimoniato la loro fede rimanendo in trincea, fino all’ultimo. Lukwiya era uno dei medici più preparati dell’intera Uganda. Dopo gli studi a Londra aveva scelto di tornare nella sua Africa per mettersi a servizio dei più deboli, in nome della sua fede. Una fede che, nel 1989, lo porta – lui anglicano – a offrirsi ostaggio ai miliziani del Lord Resistence Army, al posto dello staff medico, in gran parte cattolico, sotto minaccia di sequestro. Quando il dottor Matthew esala l’ultimo respiro ha solo 43 anni; lascia moglie e cinque figli. La comboniana Dorina Tadiello, a lui vicina, così lo ricorda: «Dall’inizio dell’epidemia lui era ogni giorno in reparto. Conosceva i malati per nome e, oltre a quella clinica, conosceva anche qualcosa della storia personale di ciascuno di loro». Quando si presentano i primi sintomi di Ebola, il medico cerca di sdrammatizzare. Ma non può non misurarsi con le domande più scomode: «Suor Dorina, chi potrà mai capire i piani del Signore?».

Due giorni prima di Lukwiya, Ebola si era portato via Grace Akullo, un’infermiera di 27 anni. Nel diario di fratel Elio Croce, comboniano che ha tenuto il diario dell’epidemia, leggiamo: «Grace è morta circondata da tutte le infermiere. Diceva che era preoccupata e dispiaciuta per i suoi due figli gemelli di quattro anni. Sia suor Dorina che Matthew erano in lacrime ed era Grace che li incoraggiava. Matthew dice che non ha mai visto morire una giovane donna con tanto coraggio, fede ed abbandono nelle mani del Signore, cosciente fino all’ultimo respiro».


Il dottor Matthew Lukwiya e l’infermiera Grace Akullo in Uganda, le sei suore della Congregazione delle poverelle nella Repubblica del Congo, stroncati da Ebola. Carlo Urbani, ucciso dalla Sars a Bangkok: da loro una testimonianza di carità che è speranza per il mondo

Ebola s’è portato via, nel 1995, anche sei suore della Congregazione delle poverelle, tutte italiane, di età compresa fra i 47 e i 71 anni. Provenivano dalle zone di Bergamo e Brescia, oggi le più colpite dal Covid–19. Teatro della vicenda è l’area sud–ovest della Repubblica democratica del Congo, allora Zaire, l’epicentro Kikwit. Le sei suore italiane, dedite senza riserva all’assistenza ai conta- giati e ai moribondi, pagano con la vita la loro generosità. Sono: Floralba Rondi, Clarangela Ghilardi, Danielangela Sorti, Dinarosa Belleri, Annelvira Ossoli e Vitarosa Zorza. Per loro, che il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, ha definito “martiri della carità” si è aperta la causa di beatificazione che, chiusa la fase diocesana, è passata a Roma. Anche oggi la memoria delle suore è molto viva tra la popolazione congolese, perché hanno incarnato il carisma del fondatore: «Stare con gli ultimi sempre».

Erano suore, ma molto più giovani (fra i 25 e i 35 anni), anche le 40 religiose che, in un arco di tempo compreso fra il 1930 e il 1960, hanno pagato con la vita la scelta di stare accanto ai malati di tubercolosi. Stavolta siamo in Italia e l’altare del martirio è l’Ospedale Pizzardi di Bologna, dedicato alla cura delle malattie polmonari, tra cui la Tbc. Appartenevano alla congregazione delle Piccole suore della Sacra Famiglia e operavano come infermiere dando assistenza giorno e notte ai malati. Perfettamente consapevoli del rischio cui andavano incontro in un contesto tanto delicato, una quarantina di loro hanno contratto la Tbc che le ha portate alla morte, tra sofferenze indicibili. La loro storia sconosciuta e la straordinaria testimonianza di carità resa è stata riportata alla luce pochi anni fa da Antonio Socci, giornalista e scrittore che si è personalmente misurato col mistero della malattia, a seguito di un grave incidente capitato alla figlia Caterina.

Tanto nascosta è rimasta, a lungo, la vicenda di queste religiose, tanto – invece è diventato noto a livello internazionale, nel giro di poco tempo, il gesto di coraggio compiuto nel 2003 da Carlo Urbani, nel pieno dell’epidemia della Sars. Il medico marchigiano, infatti, è stato il primo a individuare sul campo la Sindrome respiratoria acuta severa, ma quella scoperta gli è costata la vita. Al momento della sua morte, Urbani operava in Asia da qualche anno, come esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’area del Pacifico occidentale, dopo aver rifiutato un posto da primario all’ospedale di Macerata. Il 28 febbraio 2003 all’ospedale di Hanoi visita un paziente che non si riesce a curare e che sta infettando il personale sanitario. Intuita la gravità della malattia, molto contagiosa, Urbani allerta l’Oms, ma non riesce a portare in salvo se stesso. Muore all’ospedale di Bangkok, all’età di 47 anni. Il suo caso suscita un moto di ammirazione e cordoglio internazionale.


Vivere la fede rimanendo in trincea fino all’ultimo, come tanti camici bianchi alle prese oggi con l’epidemia di Coronavirus

«Tutta la vita di Carlo, fin da bambino, fu improntata alla fede e al servizio del prossimo», ha dichiarato la madre Maria Concetta in un’intervista. Carlo era attivo nelle opere di volontariato e aveva collaborato con organizzazioni cattoliche quali Mani Tese e l’Unitalsi. «Ma al tempo stesso – ha detto di lui Lucia Bellaspiga, che ha curato una documentata biografia di Urbani – non era il cristiano bigotto e rigido. Non si risparmiava mai nulla dei piaceri della vita: correva in moto, suonava il sax, volava col deltaplano, viaggiava il mondo…». Oggi, nel suo nome operano l’Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani) e una Fondazione internazionale, creata dal governo di Taiwan, dal momento che la figura del coraggioso medico aveva molto colpito il Ministro della sanità, di religione buddista. L’abnegazione di tutti questi “martiri in corsia” è la medesima che contraddistinse la vita (e la morte) di Joseph de Veuster, divenuto famoso come padre Damiano, che dedicò tutte le sue energie ai lebbrosi relegati nell’isola di Molokai, nell’arcipelago delle Hawaii. Nel 1873 il religioso belga si offrì volontario per impegnarsi nel lebbrosario di quella remota località, abbandonata da tutti, in una fase storica in cui la lebbra era un male incurabile, assai temuto, specie per le deformità che determinava. A Molokai padre Damiano realizzò un orfanotrofio e scuole, offrì conforto spirituale e materiale ai malati dell’isola e costruì un cimitero per dare degna sepoltura ai cadaveri. Morto di lebbra nel 1889, all’età di 49 anni, è stato canonizzato nel 2009. Finire contagiato da coloro cui prestava servizio, poveri e malati delle periferie torinesi, è stato anche il destino di Piergiorgio Frassati. Figlio del fondatore della “Stampa”, il giovane – amante della montagna e degli scherzi fra amici – si ammala improvvisamente e muore per una poliomelite fulminante. È il 5 luglio 1925; di lì a poco si sarebbe laureato in Ingegneria: una facoltà scelta perché lui, figlio della Torino bene, voleva condividere la sorte dei minatori.

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