Consigli alla mamma del ragazzo autistico non bocciato e neppure promosso
giovedì 17 giugno 2021

Caro direttore,
scrivo a proposito della lettera pubblicata sotto al titolo «'Mio figlio autistico non si può bocciare'. Ma non viene promosso davvero» della signora Melissa La Scala e della risposta, sicuramente condivisibile, che lei, direttore, le ha dato lo scorso 10 giugno. Mi permetto tuttavia di fare un’aggiunta ad adiuvandum in base alla mia esperienza professionale. 1) I 'normotipici' – che a questo punto potremmo anche chiamare i 'non diversamente abili' con la fantasia linguistica di molti italiani che pensano gattopardescamente di cambiare nomi e definizioni perché le cose cambino davvero a partire da un riconoscimento eticamente e scientificamente corretto delle diversità – non «possono decidere (loro) se ripetere l’anno oppure no» perché per tutti gli alunni giuridicamente deve decidere, motivandolo, il Consiglio di Classe, quindi un organo collegiale, in sede di scrutinio, ci si augura sulla base di una valutazione oggettiva e documentata dal punto di vista didattico e pedagogico. 2) Per chi è del mestiere: evidentemente per il figlio della signora è stato redatto un Progetto educativo individualizzato differenziato sottoposto alla firma dei genitori, se non ogni anno scolastico, agli inizi della frequenza dell’attuale grado di scuola: se così non fosse stato, i genitori potrebbero fare ricorso, ritenendo in modo documentabile che la decisione loro comunicata (come?) è arbitraria perché contraria a ogni principio pedagogico, didattico e giuridico. 3) Faccio fatica a comprendere le ragioni di 'cause attribuibili alla pandemia' che impediscano la formulazione di un progetto da attuarsi dopo la scuola secondaria di secondo grado. Per cause di carattere personale e familiare non posso che far mio il dolore della signora La Scala, che traspare dal suo scritto.

Ermanno Ripamonti psicologo, già dirigente scolastico e docente di Pedagogia speciale e Psicologia dello sviluppo Università degli Studi di Milano

Trovo, caro professor Ripamonti, che la sua lettera sia un bell’esempio di come si possa pensarla (in tutto o in parte) diversamente da un’altra persona eppure si possa anche essere pienamente empatici e orientati a contribuire alla soluzione di un problema piuttosto che a rendere rovente un dibattito. E tutti dovremmo aver chiaro che, soprattutto a scuola, come in ogni altro settore e momento dell’impegno educativo, il nome di un problema è sempre un nome di figlio o di figlia. Giro questi consigli, frutto di scienza e di esperienza, alla signora La Scala, e la ringrazio di cuore.

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