giovedì 21 gennaio 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Quel 3 gennaio del 1946 a Frisinga, noi che non c’eravamo stentiamo a immaginarlo. Il seminario della città riapriva le porte agli studenti. Fuori, la guerra era finita, il nazismo sconfitto, il quartier generale di Hitler a Berlino un ammasso di macerie. I soldati, quelli vivi, erano tornati dai fronti, o rimpatriavano dalla prigionia. I pochi superstiti dei lager testimoniavano a un mondo attonito cosa era accaduto davvero, laggiù; e solo ora si misurava appieno in quale abisso era caduto l’Occidente – uscendone tuttavia infine, stremato ma libero. Come doveva essere, pure nelle macerie, nei lutti e nella fame, quel principio dell’anno 1946 in Europa, per milioni di uomini: sprofondato l’inferno, l’alba di un nuovo inizio. E al seminario di Frisinga, erano tornati i seminaristi. Nei dormitori freddi, nelle stanze disadorne, «felici, perché eravamo liberi», ha detto il Papa nella udienza alle autorità della città, sabato: parlando in tedesco, a braccio. O col cuore: gli è proprio venuto dal cuore, vedendosi davanti le facce della sua gente, il ricordo di quel 3 gennaio 1946, e poi della ordinazione. Come il racconto di un uomo anziano a dei nipoti – che non c’erano, e non sanno. Ma c’è un passo, in questo slancio affettuoso della memoria, che è di una flagrante attualità. Perché Joseph Ratzinger e i suoi compagni, in una Germania incenerita e sconfitta, sapevano, ha detto il Papa, «che a Cristo appartengono il tempo e il futuro. E sapevamo che Egli ci aveva chiamati e che aveva bisogno di noi, che c’era bisogno di noi». C’erano poi, a insegnare a Frisinga, studiosi autorevoli, sì, «ma anche maestri», ha detto Benedetto XVI: uomini che davano agli studenti «l’essenziale, il pane sano di cui avevano bisogno per ricevere la fede da dentro». E chi legge, e in quel giorno di 64 anni fa non c’era, si ferma con un sussulto. Per la certezza che traspare dal ricordo del Papa: limpida, ferma. Nei lutti e nella vergogna della Germania sconfitta, tra le rovine del Reich che doveva durare mille anni, quei ragazzi a Frisinga avevano salvato forse due sole cose, ma quelle essenziali. Sapevano che «a Cristo appartengono il tempo e il futuro»; e che però quello stesso Dio sovrano delle loro mani aveva bisogno. E avevano dei maestri, maestri veri, che dividono il pane che nutre l’anima con gli allievi. Non rimaneva forse più nulla, agli eredi adolescenti di una follia precipitata nel nulla, se non i due cardini necessari per crescere da cristiani: la fede certa in un Dio cui il destino degli uomini interessa, e dei maestri, a condurli per mano. Ciò che molti dei nostri figli oggi non hanno; ciò che, pur avendo dato materialmente 'tutto', spesso non abbiamo dato loro. «Sapevamo che c’era bisogno di noi», dice il Papa. Quanti a vent’anni oggi hanno questa consapevolezza? Quanti, magari avviliti da disoccupazione o lavori precari, o da modesti ideali, si sentono inutili, non costruiscono, o sperano in cose da poco? No, non è invidia del lontano presente di quel gennaio del 1946, il sussulto alle parole del Papa. Non si può invidiare chi è stato ragazzo nel baratro più fondo della nostra storia, e non ha visto tornare a casa i suoi fratelli e i suoi amici. È, invece, nostalgia di quell’alba di primo dopoguerra: solo per la speranza, immensa, che se ne indovina dai ricordi di un antico ragazzo. Come quando, dopo un terribile temporale, le nuvole di tempesta si allontanano, vinte, e il cielo si allarga di nuovo, chiaro e in pace. Ecco, quel 3 gennaio al seminario di Frisinga deve essere stato così. L’inferno alle spalle, e nei corridoi freddi le voci giovani di ragazzi innocenti, ansiosi di cominciare una storia nuova e diversa. Audaci in una unica certezza: il tempo e il futuro, appartengono a Cristo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: