venerdì 7 settembre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​Dalla pubblicità ai discorsi fra le casalinghe, dalle osservazioni degli artigiani agli impegni dei professionisti e persino nei titoli dei giornali, è sempre più frequente il ricorso a un’espressione che sembrava spazzata via dal linguaggio comune come dal discorso pubblico: «Come quello di una volta». Ma non può essere solo un effetto nostalgia: sicuramente ci dev’essere dell’altro. E quell’altro non dev’essere cercato fuori di noi, bensì dentro di noi. Dentro quell’agglutinamento di sentimenti, sensazioni e concretissime valutazioni che è la vita quotidiana ai tempi dello spread impazzito. Non possiamo nasconderci che la crisi economica, meglio la recessione nella quale siamo invischiati da tre anni e che ci rende la vita sempre più difficile, stia trasformando alcuni nostri paradigmi di riferimento.La semplice consapevolezza che il denaro a disposizione non basta più (sembra diventata la merce più rara), che il lavoro per i giovani (e non solo per loro) continua drammaticamente a scarseggiare, che il ciclo della crisi economica per il rientro dal debito pubblico ci costringerà a lunghi anni di sacrifici… ebbene, tutto questo sta cambiando il nostro modo di pensare prim’ancora del nostro modo di essere. E, nell’orizzonte culturale, ecco affiorare prepotentemente il «come quello di una volta».La pubblicità, che spesso anticipa il sentimento popolare, ha intuito la forza evocativa di quell’espressione e l’ha applicata, con successo, ad alcuni prodotti di largo consumo. Ben consapevole, però, che non si tratta semplicemente di volgere lo sguardo al passato. I consumatori, cioè tutti noi, stiamo infatti valutando la necessità di rendere più lungo ed efficace il ciclo dei prodotti di uso quotidiano. Basti pensare all’abbigliamento che si spera possa durare sempre più, alla faccia della moda e dei trend che sembrano destinati a divenire uno spazio consumistico per soli ricchi. Gli stessi marchi di massa, competitori nel mercato globale, devono gioco forza riconsiderare il proprio ruolo, accettando la sfida della qualità del prodotto a parità di costo.Ma c’è ancora dell’altro: la sensazione che troppi, e in troppi settori, abbiano scelto scorciatoie di ogni tipo. Anche nelle attività cosiddette liberali, così da rendere sempre più impersonali e burocratiche le prestazioni che richiederebbero una quota di tempo investito nella relazione. E in particolare nella relazione di cura. È sufficiente ricordare quanto ci manchino, soprattutto nelle aree urbane, i rapporti di vicinato. Così come non si può prescindere dal ruolo dei medici di famiglia, dei farmacisti e dei collaboratori familiari a diverso titolo. L’aver burocratizzato i rapporti (tutti rigorosamente monetizzati), non ha favorito la responsabilizzazione dei professionisti e degli operatori, né ha migliorato la socialità. Anch’essa desiderosa di riacquisire alcuni elementi fondamentali del «come quello di una volta». In cui una quota di gratuità era assolutamente naturale. Esempi ce ne sarebbero tanti: dallo sguardo attento dei vicini di casa sui bambini che giocano in cortile, alla cura del medico di famiglia che non ti spedisce al pronto soccorso per mettere due punti di sutura, al piatto di pasta offerto con naturalezza alla nonnina sola che vive al piano di sotto.Insomma, una spiegazione realistica del successo di un’espressione del tipo «come quello di una volta», risiede in una domanda esigente e talvolta disperata di cura: nel produrre le cose, ma soprattutto nel contatto tra le persone.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: