mercoledì 29 agosto 2012
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​Come giudicare la dichiarazione del presidente colombiano Santos, che ha detto di aver avviato «trattative esplorative» con le Farc, in vista di un processo di pace? I pragmatici diranno che Santos – approfittando dell’attuale debolezza della più nota e pericolosa formazione della guerriglia di ispirazione marxista – ha fatto i conti e gioca le sue carte. I pessimisti sosterranno che siamo davanti a un bluff di stampo propagandistico, visto che il presidente si è ben guardato dal fornire dettagli su presunti contatti e protagonisti in gioco. Dunque, chi ha ragione? Ma soprattutto: cosa dobbiamo aspettarci che succeda ora, in Colombia?Cominciamo col dire che le Farc stanno davvero attraversando un periodo di grande difficoltà e questo, nei fatti, rappresenta un presupposto indispensabile per una trattativa efficace. Oggi la guerriglia può contare "solo" su alcune migliaia di persone (pochi anni fa erano oltre 20 mila). Le Farc, poi, hanno un problema di leadership grosso come una casa, avendo perso – in pochi anni – alcuni degli uomini più rappresentativi. Anche per questo, i vari "fronti" sembrano muoversi in maniera disordinata, senza una strategia unitaria. A completare il quadro c’è una progressiva carenza di risorse economiche, dovuto anche al graduale assottigliarsi del consenso popolare nei confronti dei guerriglieri. Motivo? Sentite padre Ezio Roattino, missionario della Consolata, da 30 anni in Colombia: «Le Farc che io conosco non lottano più per un ideale sociale, ma sono entrate nello spazio del terrorismo».Sul versante del governo i problemi non mancano. In primo luogo, c’è la dubbia credibilità del presidente. Santos non è certo un "volto nuovo", avendo ricoperto la carica di ministro con il predecessore, Álvaro Uribe, il quale, nel corso della sua presidenza, si è distinto per la lotta frontale alle Farc e il supporto (da taluni giudicato esageratamente favorevole) alla "smobilitazione" delle famigerate Auc, le forze paramilitari di destra.C’è, poi, il peso della storia. Giusto dieci anni fa naufragarono le trattative di San Vicente del Caguán: nel 1998 l’allora presidente Pastrana aveva concesso alle Farc la giurisdizione su un’area nel centro-sud del Paese, grande quanto la Svizzera, ma i ribelli ne approfittarono per riorganizzarsi militarmente. Il sequestro di Ingrid Betancourt, il 23 febbraio 2002, cadde come un macigno sulle residue speranze di dialogo.A quali condizioni, quindi, si potrà veramente ottenere la fine di un conflitto che, nell’arco di quasi cinque decenni, ha mietuto migliaia di vittime e provocato 4 milioni di sfollati? Padre Leonel Narvaez Gomez, per tre anni protagonista dei "dialoghi del Caguán", nel suo libro <+corsivo_bandiera>La rivoluzione del perdono<+tondo_bandiera> addita quella che a me pare l’unica via d’uscita possibile: «Alla base dei conflitti non ci sono soltanto cause oggettive, come la povertà o l’esclusione, ma anche (e forse soprattutto) cause soggettive – odio e rancore accumulati, sentimenti di vendetta – che, se non vengono risolti, impediscono la soluzione di un conflitto».Se in Colombia non si arriverà alla "purificazione dei cuori", c’è da temere che qualsiasi trattativa, prima o poi, finirà sul binario morto. In un Paese dove tornare a parlare di pace suona come sfida aperta alla rassegnazione, c’è dunque bisogno – parallelamente alle "mosse" politiche – di un profondo lavoro educativo e culturale. Padre Leonel e tanti artefici di pace come lui, fortunatamente, l’hanno già avviato.
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