La logica della condivisione e della solidarietà
venerdì 17 novembre 2023

I numeri sono notevoli: 140mila volontari, 5 milioni gli italiani che nell’edizione dell’anno scorso hanno donato 7.500 tonnellate di cibo in 11.000 punti vendita che hanno aderito a quello che viene considerato il gesto di solidarietà più partecipato in Italia. Ma il suo valore va ben oltre i numeri, soprattutto nell’epoca che stiamo vivendo, popolata com’è di paure, ostilità, indifferenza: tempi cupi, nei quali cresce la tentazione di salvarsi da soli.

L’invito a donare cibo a favore di quanti faticano ad arrivare a fine mese – sempre più numerosi, come ha certificato pochi giorni fa l’Istat parlando di 5.674.000 persone che vivono sotto la soglia della povertà assoluta – è un invito a fare i conti con la nostra coscienza, a considerare che ognuno può mettere il suo mattone per costruire una società più umana. Ed è un invito – non sembri eccessiva l’affermazione – a farci operatori di pace in un mondo dove le guerre si moltiplicano e dove l’impotenza ci paralizza davanti alle immagini di morte proposte dalle televisioni. In un’epoca in cui sembra prevalere la logica della contrapposizione, della polarizzazione, della demonizzazione dell’altro, donare un po’ di cibo, ognuno secondo le proprie possibi-lità, è come donare un po’ di sé, è affermare la logica della condivisione e della solidarietà.

Molto più che una “buona azione”, è un gesto dalla forte connotazione educativa che aiuta a considerare l’altro come parte di me, ricorda che non siamo isole ma creature relazionali. Chi scrive non potrà mai dimenticare alcuni gesti di cui è stato testimone in questi anni durante la Giornata della Colletta promossa dal Banco Alimentare: la nonnina che uscendo dal supermercato consegna ai volontari un pacco di pasta dicendo “con la mia pensione di più non posso, ma lo offro col cuore”; il carcerato che regala una scatoletta di tonno “perché chi vive qua dentro sa cosa significano povertà e solitudine”; lo straniero che consegna ai volontari un sacchetto di alimenti perché “voglio restituire almeno un po’ di quanto ho ricevuto mangiando per anni alla mensa dei poveri”. La cultura del dono è ancora radicata nel DNA del nostro popolo, alimentata per secoli da un humus che affonda le sue origini profonde nel cristianesimo. È qualcosa che modernità e secolarizzazione hanno inquinato e parzialmente distorto, ma non hanno potuto cancellare.

Nel 1961, in un libretto intitolato “Il senso della caritativa”, don Giussani scriveva: «Quando c’è qualcosa di bello in noi, ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza». Questa legge naturale ha trovato compimento in Colui che ha fatto del dono di sé il senso dell’esistenza, fino all’offerta suprema della propria vita. E coloro che si nutrono di quella suprema offerta continuano da secoli a esserne seguaci e testimoni. Nel convincimento che è quel dono di sé, quell’amore arrivato fino alla morte, che ci rende davvero fratelli tutti.

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