Col no al salario minimo una grande responsabilità alle parti sociali
venerdì 13 ottobre 2023

Con l’approvazione all’assemblea del Cnel del documento istruttorio sul tema del salario minimo si riaccende il dibattito che aveva animato la politica nell’estate appena passata. L’indicazione di fondo del documento è chiara: la strada maestra per il rafforzamento dei salari in Italia non è il salario minimo legale, non sono esperti esterni al tessuto sociale e produttivo, ma la contrattazione collettiva. Posizione che non potrà che generare discussioni, soprattutto perché (scenario difficilmente immaginabile fino a solo un paio d’anni fa) vede contrari due dei tre maggiori sindacati italiani.

Occorrerà vedere cosa deciderà il governo alla luce di questo documento, da esso stesso richiesto, e che contiene nella parte finale alcune proposte che potrebbero essere incluse in futuri interventi legislativi, a partire dalla Legge di Bilancio o del più volte annunciato collegato lavoro. Quello che pare certo è che l’introduzione del salario minimo legale resta un’ipotesi remota fino a quando questa maggioranza sarà al governo e che quindi, dibattito a parte (che andrà esaurendosi), ora la palla passa principalmente alla contrattazione collettiva.

L’errore più grande, sia per la politica sia per le parti sociali, oggi sarebbe quello di limitarsi a crogiolarsi in una sconfitta aspettando un cambio di governo o di adagiarsi sullo scampato pericolo di una misura sulla quale non si concordava. In particolare, le parti sociali hanno, volenti o nolenti, una responsabilità enorme nel difendere non solo l’autonomia del loro ruolo e della loro azione, ma di dimostrare che seguendo questa strada le condizioni economiche e sociali miglioreranno.

Perché è chiaro che il problema dei salari e il problema del lavoro povero rimangono e sono urgenti, tanto più con la spinta inflazionistica che rallenta ma che continua a erodere potere d’acquisto. In questo quadro, la spaccatura dei sindacati non è una buona notizia, soprattutto per la possibilità che la contrattazione prenda in mano alcuni dossier e che magari si auto-regoli su alcuni capitoli attraverso accordi interconfederali.

Allo stesso tempo però il realismo impone di percorrere questa strada, essendo a oggi escluse le altre e considerata l’importanza dei temi. Un primo segnale dovrebbe essere il rinnovo, tenendo conto anche della dinamica inflazionistica, dell’oltre metà dei contratti collettivi nazionali scaduti, molti dei quali senza aver introdotto meccanismi di adeguamento salariale. Situazione che, in un momento economico difficile come questo, non pone le parti sociali sotto la miglior luce. Se questo non avverrà, sarà difficile continuare a sostenere non solo idealmente ma anche con risultati alla mano il ruolo centrale delle parti sociali nella determinazione di salari dignitosi.

Ma pensiamo, ad esempio, a quello che può essere fatto in materia di parità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori temporanei, differenze che spesso sanciscono grandi differenze salariali. Se la strada scelta è quella della contrattazione, occorre poi, anche di concerto con l’azione legislativa, limitare atteggiamenti opportunistici delle imprese che, surrettiziamente, applicano minimi retributivi diversi dai contratti che ufficialmente dichiarano. Ma tutto questo è solo la punta dell’iceberg, perché occorre iniziare ad affrontate tutta una serie di elementi di distorsione del mercato del lavoro italiano che non sarebbero stati comunque toccati dal salario minimo.

Tutti elementi noti sui quali non occorrono dati aggiuntivi, a partire dal mal funzionamento dei tirocini extra-curriculari, dall’utilizzo senza freni del parttime involontario (che tocca il 65% degli occupati parziali in Italia), dalle aree grigie della parasubordinazione. Se non si agirà presto su tutti questi fronti, ciascuno (politica e parti sociali) per quanto gli compete, sarà difficile non osservare un ulteriore e grave calo di fiducia da parte dei cittadini, con tutte le conseguenze del caso.

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