giovedì 1 giugno 2017
Si può migliorare con strumenti che permettano ai giovani di non rinviare troppo la formazione di una propria famiglia e attraverso un sistema fiscale meno svantaggioso per coppie con figli.
Ci sono molti segni positivi per un ritorno delle nascite
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Siamo sempre di meno e sempre più vecchi. Questo in estrema sintesi si conferma essere il ritratto della demografia del nostro Paese che emerge dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat. L’immigrazione non risulta più in grado di colmare il sempre più ampio divario tra nascite in riduzione e decessi in aumento. Il motivo principale è l’ormai cronica bassa natalità che porta con sé sia una riduzione della popolazione sia un inasprimento degli squilibri strutturali tra vecchie e nuove generazioni. La grande recessione ha peggiorato un quadro già problematico, confermando quanto le condizioni economiche presenti e l’incertezza sul futuro pesino sull’assunzione di scelte di lungo periodo come la nascita di un figlio. Non è un caso che il nostro Paese sia allo stesso tempo quello con più alto numero di under 30 che dopo gli studi non riescono ad entrare nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet) e quello con fecondità crollata maggiormente prima dei 30 anni.

Secondo le previsioni centrali prodotte dall’Istat nel 2011, quindi già in epoca di piena crisi, nel 2016 il numero medio di figli per donna avrebbe dovuto essere pari a 1,44, mentre il dato vero è stato notevolmente più basso, pari a 1,34. Le nascite complessive avrebbero dovuto essere pari a 531 mila, sempre secondo le previsioni, e invece sono state pari a 474 mila. La lunga e pesante crisi ha portato a rinviare ancor più che in passato la realizzazione piena dei propri progetti familiari. Le donne tra i 26 e i 30 anni nel 2008, hanno oggi tra i 35 e i 39 anni. Si tratta della fascia che ha attraversato la crisi nella fase centrale della transizione alla vita adulta, correndo oggi il maggior rischio di rinunce definitive. Uno studio condotto con i colleghi demografi Comolli e Caltabiano – presentato l’anno scorso all’European Population Conference e in corso di pubblicazione – mostra come tale generazione sia quella che ha rinviato maggiormente l’arrivo del primo figlio. L’impatto risulta però differenziato nelle varie categorie sociali.

La recessione ha inciso poco o nulla sulle scelte riproduttive delle donne con basso investimento sulle opportunità di lavoro e maggior predisposizione al ruolo di casalinga e madre, residenti soprattutto al Sud e con titolo di studio medio-basso. Per le grande maggioranza, invece, delle donne con istruzione media o alta la condizione occupazionale risulta strettamente interrelata con i progetti familiari. Soprattutto in periodo di crisi chi non ha un impiego ha come principale assillo quello di trovarlo. Chi invece ha un lavoro è particolarmente attenta al rischio di perderlo. Tutto questo ancor più in un contesto di cronica carenza di misure di conciliazione tra lavoro e famiglia. Lo studio però evidenza anche come una parte di queste donne, soprattutto le laureate delle regioni centrosettentrionali, disponga di risorse culturali ed economiche in grado di realizzare i propri obiettivi di vita anche nelle congiunture sfavorevoli. Durante la recessione a trovarsi a rinviare maggiormente la maternità sono state, allora, soprattutto le donne con titolo di studio intermedio, orientate al lavoro e con necessità di conciliazione, ma con meno risorse e strumenti rispetto alle laureate.

È su questa ampia categoria su cui si gioca di più la possibilità che il rinvio diventi o meno rinuncia definitiva una volta superata la fase più critica della crisi. Per consentire a esse un recupero in grado di spingere al rialzo la natalità nazionale nei prossimi anni, è necessario agire sul brevissimo periodo investendo, però, nel contempo in modo solido su misure di medio periodo. Serve, infatti, un segnale immediato di maggiore attenzione e sostegno da parte delle politiche pubbliche. Utili in questo senso sono i contributi previsti dall’attuale Governo a favore dei nuovi nati e a supporto ai costi dei servizi per l’infanzia. Si deve però trattare di misure incisive, organiche e con prospettiva di consolidarsi nel tempo. Assieme a queste azioni di immediato riscontro va però messo in atto un solido processo di rafforzamento strutturale delle politiche familiari in grado di ridurre l’incertezza nel futuro da parte di chi decide oggi di avere un figlio.

Le carenze del nostro Paese sono in particolare evidenti su tre fronti: gli strumenti che consentono ai giovani di non rinviare troppo autonomia e formazione di una propria famiglia; un sistema fiscale meno svantaggioso per le coppie con figli, fondato sull’idea che i bambini sono un investimento sociale più che un costo privato; misure solide per la conciliazione tra lavoro e famiglia. La convinzione e la determinazione con cui agire per recuperare le carenze passate dovrebbe ispirarsi a quello che ha fatto la Germania negli ultimi anni. Tale Paese, come l’Italia, presenta una natalità molto bassa, ma sta da vari anni investendo tutto quello che serve per aumentare la copertura, in particolare, degli asili nido. Tanto che la partecipazione tedesca ai servizi per l’infanzia per i bambini sotto i 3 anni è più che raddoppiata dal 2006 ad oggi, raggiungendo di fatto la convergenza con la media dei Paesi sviluppati. Il dato italiano è invece rimasto uno dei più bassi in Europa.

Ci sono però almeno tre dati per pensare che siamo ancora in tempo a recuperare se interveniamo con politiche solide. Il primo è che l’aumento delle nascite è un obiettivo desiderato, come indica l’ampio divario tra il numero di figli che le coppie italiane vorrebbero avere – mediamente superiore a due secondo i dati Istat– e il numero che effettivamente si trovano a realizzare, pari a 1,34 figli. Oltre che desiderato, un incremento rilevante è possibile. Lo conferma la crescita osservata nelle regioni centrosettentrionali dal 1995 al 2010. In Emilia Romagna e Lombardia, in particolare, la fecondità in tale periodo è aumentata di circa 0,5 figli. Un aumento di tale entità è comparabile con quello del baby boom osservato nel corso degli anni Cinquanta e arrivato all’apice a metà anni Sessanta. La persistenza della crisi ha poi ripiegato verso il basso le scelte riproduttive in tutto il Paese. Ma se nei prossimi quindici anni la fecondità italiana fosse in grado di risalire di 0,5 figli otterremmo la convergenza con i Paesi Scandinavi.

Il terzo dato ci dice che oltre a essere desiderato e possibile, l’obiettivo di incoraggiare le nascite con politiche adeguate potrebbe oggi collocarsi in un contesto particolarmente favorevole. Nel 2015, secondo i più recenti dati Istat, i matrimoni sono per la prima volta tornati ad aumentare dall’inizio della recessione. La ripresa delle nascite, dopo una fase di crisi, parte sempre da una ripresa di effervescenza delle unioni di coppia. È stato così sia alla fine della seconda guerra mondiale e sia nel periodo del baby boom. Che quindi i matrimoni tornino a crescere è una buona premessa per la ripresa della natalità. Insomma, le condizioni ci sono e questo è il momento migliore, escludendo gli anni passati, per investire tutto ciò che serve a mettere in relazione virtuosa vitalità del presente e fiducia nel futuro. È una scommessa che sta nelle mani del Governo, ma che impegna tutto il Paese.

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