Ciò che ancora ci dobbiamo
mercoledì 5 maggio 2021

«Ombre Rosse», nove terroristi italiani arrestati dopo quarant’anni di latitanza in Francia. Sui giornali le vecchie foto segnaletiche dei ricercati – in bianco e nero, di profilo e di fronte – sembrano così remote, nell’era del digitale: ombre annerite dal tempo, che sorprendentemente ritornano. Chi oggi ha quarant’anni non c’era, e non ricorda quell’Italia. Quando ogni mese o quasi un dirigente, un magistrato, un giornalista, da tempo spiato, veniva atteso sotto casa e ucciso o gambizzato a colpi di calibro 7.65 da un commando che a passi svelti e sicuri si dileguava, nell’attonito silenzio delle case attorno. Poche ore, la rivendicazione: «Abbiamo giustiziato il servo dello Stato…».

Vale la pena forse di raccontarla a chi non c’era, la Milano di quei giorni, stretta in una cappa di angoscia che ora in qualche modo, se pure non uguale, è tornata. Certe mattine a Brera, dalla Questura, sentivi le sirene delle Volanti impazzire, e correre tutte insieme verso uno sconosciuto angolo della città. Era successo ancora. A volte era difficile trovare testimoni, chi aveva visto tremava. In tanti si sentivano possibili obiettivi, e ogni volta la paura si allargava, come i cerchi nell’acqua quando si lancia un sasso. Ero una liceale e vidi Milano cambiare: nessuno in giro la sera, le strade buie, e qualcuno che, rincasando, faceva prima in auto, lentamente, il giro dell’isolato. Anche negli anni di piombo ci fu una sorta di lockdown, una depressione della normale vita quotidiana. Noi ragazzi non politicizzati non ci sentivamo nel mirino, giacché il terrorismo rosso mirava ai "borghesi", o ai "fascisti". Fra questi, però, anche studenti, massacrati o uccisi di botte per strada. Succedeva. E noi, ricordo con stupore, nemmeno ce ne meravigliavamo: ci sentivamo dentro a una guerra, e si sa che in guerra si muore.

Era violenta, grigia, buia la Milano degli anni di piombo. Per niente trendy, movida e happy hour parole ignote. All’alba in Questura i cronisti, e adesso cominciavo a esserci anch’io, sfogliavano i mattinali della notte. Ma "loro", le Br, colpivano alle otto del mattino, quando la vittima andava al lavoro. E allora, l’ho ancora nelle orecchie lo scatenarsi delle sirene ululanti, rabbiose dentro al traffico dell’ora di punta. Anche quest’anno Milano è stata percorsa da tante sirene, che però soccorrevano i malati. Quelle invece si addensavano tutte assieme su un punto dell’asfalto, sul sangue di un uomo.

Confronto oggi, quarant’anni dopo, le due cappe che ho visto su Milano. La prima era violenta, oscura, ma i nemici erano infine uomini, se pure nascosti, clandestini. Quando poi vedemmo i volti degli assassini di Walter Tobagi, nostri coetanei, studenti, benché non capissimo, benché la loro logica ci fosse del tutto estranea, ci rassicurò forse sapere che l’occulto nemico era andato nelle nostre stesse scuole, e in fondo vestiva come noi. È importante, dare un volto al "nemico". È l’avversario senza volto, che fa più paura.

Guardo di nuovo quelle vecchie foto segnaletiche. Assassini, latitanti, ma sconfitti. Soldati vinti, di cui i più oggi non ricordano le colpe, né la causa, né il nome. E, alla fine, soltanto uomini.

È peggiore, mi pare, la cappa del Covid. Nel lockdown ho visto Milano trasfigurata, la vita asserragliata nelle case, e come sospesa. Il grido delle sirene certi giorni continuo, inarrestabile. Ma, lo si sapeva, non c’era un assassino. Questa volta il nemico non aveva fattezze umane: era nell’aria, era nel respiro, e – forse – in ascensore, e forse accompagnava, invisibile, un amico. Questa volta nelle strade desolate ho visto la gente scansarsi contro i muri, pur di evitarsi, in un’ansia che confinava con l’ossessione.

Allora ho ripensato alla Milano di piombo dei miei vent’anni, e, pure tragica, mi è sembrata meno disumana. Il nemico invisibile genera un’angoscia pervasiva che altera capillarmente i rapporti, i gesti, le consuetudini, come nessun terrorismo ha fatto. Il piombo, era almeno una minaccia di carne e ossa. La pandemia è il contagio portato dall’abbraccio di un nipotino amato, di un fratello. L’inimmaginabile, l’assurdo ritorno di un male oscuro e antico, che credevamo di avere vinto per sempre. Per questo non ci possiamo quietare e solo rintanare. Per ricominciare davvero, ci dobbiamo a vicenda, gli uni gli altri. Consapevoli e forti di comune responsabilità, di comune civile lavoro. Così come poco a poco fu, e vincemmo, in quegli anni di piombo che si sono fatti lontani.

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