mercoledì 1 giugno 2011
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Caro direttore, mi chiamo Debora e frequento la terza media. A volte, in parrocchia, mi capita di leggere "Avvenire". Sfogliando le ultime pagine del giornale e sollecitata dal parroco, con cui spesso mi confido, mi son decisa a scriverti questa lettera per parlarti di un "problema" che oggi, spesso, molti ragazzi della mia età si trovano ad affrontare. Mi riferisco a quella sensazione di piccolezza, confusione e preoccupazione, che generalmente definiamo "solitudine". Chissà perché, proprio quando ti rendi conto di essere in corsa, una corsa sicura, irrefrenabile, a un passo dalla felicità, ecco che inciampi: qualcuno vuole ostacolare la tua felicità, e la sola conseguenza è la solitudine. Causata da un tradimento, una parola, un’offesa, uno sguardo che ti fa ritrovare al punto di partenza. Un punto in cui si è totalmente soli o, meglio, se ti guardi intorno, c’è tanta gente, ma nessuno è disposto ad aiutarti, a sprecare del tempo con te. Ti senti totalmente trasparente. Un colpo basso, nel tuo punto più debole, che spesso è lì nella parte più profonda e sensibile del cuore. Non c’è più nessuno pronto ad afferrarti prima che tu cada, nessuno disposto a offrirti un semplice sorriso pur di vederti felice, nessuno che ti aiuti a rincominciare da zero. Sei solo, sommerso da tutti i tuoi pensieri, e non sai come venirne fuori. Spesso le uniche cose che senti sono la paura di non riuscire a riprenderti e il desiderio di trovare delle risposte a tutte le tue domande, ma senza riuscirci. Quelle domande, quelle frasi con le quali esprimi la tua rabbia e il tuo dolore, che vorresti urlare alle orecchie del mondo. Ma in fondo la solitudine può avere i suoi vantaggi finali… Dopo aver sofferto e pianto inutilmente, alla ricerca di qualcuno che ti ascolti, nell’esatto momento in cui perdi tutte le speranze, ecco che trovi un appoggio sicuro. Vedi la Sua mano che ti cerca. L’unica mano capace di darti tutte le risposte che cercavi. Quella mano che, anche se tu non te ne accorgi, è sempre lì che ti sostiene. È la Sua mano sicura, è la mano di Dio.

Debora, Adelfia (Ba)

La bella lettera che hai scritto, cara Debora, mi ha restituito per un po’ il sapore dei sentimenti e delle attese dei 13 anni. Ho ritrovato gli slanci e gli scoramenti di allora, la profondità delle emozioni, la purezza un po’ arruffata dei sogni e dei pensieri e la pretesa nitida di "farsi sentire" con la stessa generosa intensità con cui si è curiosi ed esigenti nei confronti degli altri, coetanei e più grandi. Sono contento di averti potuto leggere, ma soprattutto sono contento per te. Perché in fondo a una catena di concetti squadrati e amari – confusione, precauzione, solitudine, indisponibilità, zero, paura, rabbia... – hai trovato e offerto l’idea e, ancor più, il tocco accogliente della «mano sicura» di Dio. Non posso e non voglio dirti qualcosa di ciò che ti aspetta, nel tempo che hai davanti. Mi mordo la lingua e freno la scrittura – proprio come faccio da anni con le mie due figlie – perché l’esperienza mi autorizza a raccontare di me, a spiegare e, per quanto riesco, a testimoniare ciò che ho imparato, ma mai ad "anticipare" la vita altrui. Posso e voglio però dirti che ciò che tu stai sperimentando l’ho provato anch’io. Quella «mano sicura» ha sempre trovato la mia spalla, anche quando ho temuto di non meritarla, tanto più quando ho pensato di poterne fare a meno. Mi ha rincuorato e turbato e sostenuto. E, sempre, mi ha sorpreso. Sentendone il peso e l’affetto, ho imparato e non finisco d’imparare a essere cristiano, figlio, fratello e – poco a poco – anch’io padre. Ti auguro di crescere bene, con giusto passo, nella tua fede e nella tua umanità di donna. E ti auguro di restare in buona compagnia.
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