Catalogna, «procés» impazzito e senza legge
domenica 24 settembre 2017

Il fosco scenario del braccio di ferro Madrid-Barcellona Molti sono i nodi di teoria dello Stato e della Costituzione messi in evidenza dal tentativo del Govern regionale catalano di tenere un referendum indipendentista il prossimo 1° ottobre. Una sola cosa appare certa: quel tentativo – unitamente agli atti che lo hanno preceduto, come la dichiarazione approvata il 6 settembre dal Parlamento catalano – sono del tutto illegittimi sia dal punto di vista della Costituzione spagnola del 1978 che da quello dello Statuto regionale della Catalogna, approvato con referendum popolare 11 anni fa.

Per la Costituzione spagnola – che prevede unicamente l’esistenza di un popolo spagnolo e qualifica all’art. 2 come «indivisibile» lo Stato da essa ordinato – la questione dell’indipendenza non può, evidentemente, neppure essere posta: di qui le molteplici pronunce della Corte costituzionale spagnola, che hanno annullato vari atti paraindipendentistici del governo e del Parlamento catalano e, da ultimo, le misure restrittive della libertà personale di alcuni funzionari del governo regionale adottate alcuni giorni fa, in esecuzione delle leggi, fino al controllo dei Mossos, la polizia della Catalogna, assunto ieri da Madrid. Ma anche per lo statuto regionale catalano l’iniziativa in favore dell’indipendenza infrange la legalità: quello statuto, che è la base dell’autonomia, può – per sua stessa previsione – essere modificato solo a maggioranza dei due terzi.

Tale maggioranza dovrebbe essere dunque necessaria anche per una decisione ben più seria della riforma 'costituzionale' catalana (il cambiamento dello statuto), vale a dire per la convocazione di un referendum indipendentista. Ma, in mancanza della maggioranza dei due terzi nell’attuale Parlament, i sostenitori dell’indipendenza hanno sinora proceduto a maggioranza semplice. Del resto il supporto popolare – e quello delle forze politiche catalane – all’indipendenza è certo significativo, ma trova di fronte a sé una resistenza, più o meno passiva, vicina alla metà della popolazione. Chiarito, dunque, che nessuna base legale spagnola – e neppure catalana – può essere invocata a favore dell’indipendenza, sarebbe vano ricercare tale base nel diritto internazionale. Quest’ultimo riconosce un certo rilievo al principio di autodeterminazione dei popoli, ma resta piuttosto vago su cosa sia in concreto un popolo, sia in quali condizioni e con quali garanzie l’autodeterminazione possa essere fatta valere. Il dato di contesto necessario a rendere operativo tale principio sembrerebbe essere una situazione di grave oppressione del popolo che intende autodeterminarsi: di negazione dei diritti fondamentali dei suoi cittadini e di esclusione delle tecniche di autogoverno democratico a livello locale o nazionale.

Ma questo può valere forse per il Kurdistan – che proprio in questi giorni celebrerà un contestato referendum sull’indipendenza – non certo per la Catalogna, la quale gode da quattro decenni di un’ampia autonomia regionale, con specifica tutela del fatto differenziato rappresentato dalla sua lingua. Da questi rapidi cenni si può dunque concludere che le uniche basi che il procés indipendentista catalano può invocare sono di tipo rivoluzionario: cioè di rottura di ogni rapporto con la legalità costituzionale preesistente, con l’obiettivo di fondarne una del tutto nuova. Del resto è quanto prima o poi accade in tutti i percorsi che portano alla nascita di un nuovo Stato. Il problema, in questo caso, è ovviamente la (del tutto legittima) resistenza dello Stato spagnolo di fronte ad atti rivoluzionari ed eversivi.

E tutto ciò rischia di rinviarci alla radicale brutalità dei fatti, cioè, in ultima analisi, della forza. Qui si apre un ulteriore capitolo: a differenza dell’indipendentismo basco – che dal 1968 al 2011 ha spezzato brutalmente ben 800 vite umane nel suo delirio nazionalista – quello catalano ha sinora rivendicato la sua natura civile e non violenta. E ciò va indubbiamente a suo merito. Tuttavia la parete che separa la rottura della legalità costituzionale dal ricorso alla violenza – pur importante – è assai sottile e i presìdi di alcuni indipendentisti radicali davanti ad uffici pubblici catalani in questi ultimi giorni, seppur disarmati, evocano la fragilità di questa barriera. C’è un solo grande assente da tutta questa vicenda – che si svolge in uno dei luoghi più civili d’Europa, ma che evoca spettri propri di altri tempi e luoghi – ed è il dialogo, fra Madrid e Barcellona. Della rinuncia al dialogo è responsabile in primo luogo il catalanismo indipendentista, la cui opzione centrale – la secessione – pone in discussione l’integrità dello Stato spagnolo, rendendo di per sé assai difficile ogni confronto costruttivo. Ma anche il governo di Madrid – spesso percorso da venature centraliste che richiamano un certo arcaico spagnolismo – non è, su questo piano, esente da colpe.

È vero, infatti, che il presidente Rajoy ha più volte offerto il dialogo ai leader catalani (da ultimo proponendolo per il prossimo 2 ottobre, dopo la data del fantomatico referendum), ma è non meno vero che il suo partito, sinora, ha brillato per il silenzio circa le possibili vie d’uscita, che potrebbero essere offerte ai catalani per 'convincerli' a restare spagnoli. In tutto ciò, sul versante catalano, c’è da lamentare la scomparsa di un soggetto culturale e politico che era stato egemone per oltre trent’anni: il nazionalismo locale non indipendentista. Quest’ultimo ha subito una mutazione genetica (ben rappresentata dall’attuale President, l’oltranzista Carles Puigdemont) e si è consegnato mani e piedi ai radicali, come la Cup (un partito paracomunista settario, anticristiano ed antioccidentale) ed Esquerra Republicana de Catalunya, una sorta di Lega Nord di sinistra, a lungo minoritaria, ma ora vera anima del procés. Da questa aggregazione non c’è da aspettarsi nulla di buono.

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