sabato 1 novembre 2014
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Non ce lo toglieranno dalla memoria, non ce lo strapperanno dal cuore, il volto sfigurato di quel ragazzo morto, il suo corpo pelle e ossa, il suo destino intrappolato tra le mani, o tra le maglie, della Giustizia e della Sanità, cioè dello Stato che assicura il diritto e il rispetto dei diritti e dello Stato che cura e protegge la salute. Due mani, o due maglie, da cui la vita di Stefano Cucchi è uscita spezzata dalla morte, senza che alcuno ne risponda più, ora che la Corte d’appello ha assolto tutti. Gli uomini dell’ordine e della forza che portano la divisa dello Stato-giustizia, già assolti in primo grado per insufficienza di prove; ma ora anche gli uomini della cura e della salute che portano i camici bianchi dello Stato-sanità, già condannati in primo grado per omicidio colposo, per averlo lasciato morire di fame e di sete.Tutti assolti, nessun colpevole. La formula è quella che annaspa nel territorio delle prove che mancano, delle prove insufficienti, delle prove che si contraddicono; e un motivazione scritta ci spiegherà poi che cosa è mancato alla certezza, qual è stato l’insuperabile dubbio. E noi l’aspetteremo, la leggeremo, a cuore gonfio sapremo perché la morte di Stefano è ricacciata nel buio di un enigma senza risposta. No, non siamo avidi di condanne a priori, nel pianto che inonda l’intera vicenda, non è questo il punto. E non è per imprecare, o urlare o far da noi per impulso o emozione una diversa sentenza, che plachi il rifiuto istintivo per un epilogo impotente, a spiegare l’inaccettabile sventura. È per rinnovare l’interpello verso un Sistema dove l’accaduto non si è spiegato e la frattura non si è ricomposta e il male è rimasto, e le conseguenze e gli esiti di cinque anni di processi sono gli stessi di come se non fosse accaduto, e invece è accaduto, è lì, con la sua atrocità, con quella morte "vera". È questo pensiero che ci fa lambire l’assurdo.Certo, non diremo che in genere una condanna purchessia rimette le cose a posto ripristinando i teoremi virtuosi della giustizia; il peggio è perdere il lume del discernimento, e appendere all’albero dei supplizi chi è stato invischiato e  sospettato "personalmente", prima di una confortata risultanza; e sappiamo bene quali sono i rischi e i guasti, nei processi in genere, delle granitiche certezze preventive che scansano l’angoscia probatoria. Ma è proprio questo, stavolta, che ci impedisce di metterci in pace, perché ci avverte che quegli orrori che accadono nei collettivi del Sistema possono restare sepolti nel Sistema, senza rimedio. Ci sarà una rivolta della coscienza per chi sa, per chi vede, per chi si defila? L’intollerabile è questo: non solo che la giustizia non sappia riparare i torti, ma ancor peggio che non sappia prevenirli e scongiurarli, quando è in gioco la vita e la libertà, cioè valori laicamente "sacri" e non vili, di un uomo "catturato", vinto e tenuto "in potere" dalla legge, che muore in ospedale di fame e di sete, col viso illividito sotto un lenzuolo. E i genitori a ustolare alla porta dell’ospedale per parlare con i medici, invano; fino a chiedere "il permesso" giudiziario di vedere il figlio, in tempo per trovare un cadavere. Crudeltà.È ancora tutto questo dolore che la sentenza d’appello ci lascia intero sul cuore, senza scioglierne il filo. E noi ancora ne siamo impaniati, e dobbiamo dircelo forte l’un l’altro. E reclamare coscienza, coscienza, la voce che giudica il male prima, prima del male.
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