giovedì 12 aprile 2012
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​Non sono stati pochi, – e alcuni molto autorevoli (penso a Battista, Cazzullo e Ferrara) – i commentatori che, pur marcando i tanti inaccettabili aspetti del modus operandi della Lega, hanno sottolineato la necessità di riconoscere a Umberto Bossi, ora in grave difficoltà e sottoposto a un sin troppo facile linciaggio, un ruolo cruciale nel rivendicare, con notevole coraggio e grande lucidità politica, i diritti del Nord. Un desiderio di portare subito la questione settentrionale dalla cronaca alla storia. Ma la stessa passione per la storia, che bene rivendicava Ferrara – contro ogni moralismo, con un giusto fastidio per il politicamente corretto –, ci dovrebbe portare a fare i conti anche con quelli che i latini chiamavano mores, e cioè quel livello antropologico profondo che, della storia, è, per così dire, la natura naturata. In tal senso la domanda è inevitabile: che cosa ha rappresentato la Lega proprio dal punto di vista dei mores nella vicenda non politica, ma civile e sociale, del Paese?Io credo che lo stile fintoceltico e le liturgie identitarie che la Lega s’è inventata negli anni, culminate nell’atto in cui il leader sollevava l’ampolla con l’acqua del Po, debbano essere presi molto sul serio: non solo per quanto di storicamente mistificatorio, di miseramente superstizioso, portano con sé. Quanto per il disprezzo nei riguardi di quella grande cultura storica e politica che invece tutti i partiti della prima Repubblica – nessuno escluso – avevano ancora in grande considerazione: che altro è l’ideologia padana e neopagana dell’ampolla, se non la traduzione imbarazzante di un immaginario ricavato, al più, da certo cinema pseudo-epico, semplicistico e regressivo, alla Conan il barbaro? Ma la cosa più preoccupante è un’altra, stranamente non segnalata da alcun commentatore, eppure così eclatante, persino nelle titolazioni di prima pagina, accanto, magari, alla foto dei due Bossi abbracciati, col giovane che sfoggia su una maglietta candida un fumettistico pesce con sotto stampato il soprannome che proprio il padre ha coniato per lui: il Trota. Mi riferisco a una precisa dichiarazione del leader padano: «Non avrei mai dovuto far entrare i miei figli in politica». E all’altra: «Avrei dovuto mandarli all’estero».Quasi che i figli fossero semplicemente "roba", proprio nell’accezione verghiana, di cui un padre capo-branco potesse disporre a suo piacimento, a sua persino capricciosa discrezione. Ho così pensato, con molta pena, alla tragedia doppia che il padre Bossi s’è trovato improvvisamente a vivere. E doppia perché tradito, ma tradito proprio da quel figlio-delfino (o, padanamente, trota) che aveva sinora tribalmente vissuto come la sua propria costola. Sono allora riandato a quanto Alberto Savinio, in Vita di Enrico Ibsen (1943), scriveva del rapporto, semplice eppure numinoso, tra padri e figli, là dove biasimava lo sconcio desiderio dei genitori di "continuarsi" nella prole, quando è vero che, molto spesso, «il corpo del figlio serve di tomba al fantasma del padre». Savinio non aveva dubbi: «I figli nati dalla nostra carne seguono il caso della carne (la sola parte fisica della vita è soggetta al caso: la metafisica no) e il caso non a caso fa diversi i figli da come i genitori li avevano sognati». Per poi concludere: «In questo caso è il caso (…) che serve la causa dei nostri figli e tanto migliori li fa, tanto più degni di se stessi, quanto più diversi li fa da coloro che li hanno generati».
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