Carola e noi: stesso dovere
martedì 28 dicembre 2021

Anche le sentenze dei giudici possono essere discusse e criticate. E, dopo aver vestito per lunghi anni la toga, chi scrive è più che mai consapevole che l’esercizio del diritto di critica nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali rappresenta il necessario tributo che la magistratura italiana deve pagare per conservare una assoluta indipendenza, che probabilmente non ha eguali nel resto del mondo. Per questo, non ci si può strappare le vesti di fronte ad alcune aspre critiche che, alla viglia di Natale, hanno accolto la decisione del giudice di Agrigento di archiviare l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina contro Carola Rackete, comandante della Sea Watch. Rackete il 29 giugno 2019 aveva fatto attraccare la nave nel porto di Lampedusa, violando il divieto dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, di sbarcare i naufraghi soccorsi nel Canale di Sicilia. Eppure, le critiche sentite in questi giorni sollevano un grande polverone, che poco ha a che fare con il diritto di critica.

Andiamo con ordine; a costo d’essere un po’ pedanti (ma a volte è necessario un minimo di pedanteria per avere, alla fine, idee chiare). Durante le operazioni di attracco a Lampedusa la Sea Watch aveva urtato una vedetta della Guardia di Finanza. Quell’urto divenne subito, per diversi media, un "piratesco speronamento". Per quell’urto la comandante Rackete fu arrestata, appena messo piede in Italia, per i reati di violenza contro nave da guerra (art. 1100 codice navigazione) e resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.). La procura di Agrigento chiese la convalida dell’arresto. Ma il giudice (il 2 luglio 2019) non convalidò e scarcerò Rackete. Non sussisteva l’art. 1100 del codice della navigazione – disse il giudice – in quanto le unità della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali. E la resistenza a pubblico ufficiale non era punibile ai sensi dell’art. 51 c.p. in quanto «l’indagata aveva agito in adempimento di un dovere». Infatti – precisava il giudice – «l’attività di salvataggio in mare di soggetti naufraghi deve considerarsi adempimento degli obblighi derivanti dal quadro normativo».

Qual è questo «quadro normativo»? Innanzitutto, gli articoli 10 e 117 della Costituzione, secondo cui il nostro ordinamento giuridico «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» e la potestà legislativa di Stato e Regioni deve essere esercitata nel rispetto non solo della Costituzione ma anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Tra queste norme internazionali, recepite dall’Italia, c’è la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (c.d. "Unclos: United Nations Convention of the law of the sea") il cui art. 98 impone al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà qualora venga informato che tali persone abbiano bisogno di assistenza. Tutto ciò non significa che gli Stati nazionali non abbiano il diritto di regolare i flussi di ingresso nel proprio territorio. Ma questo diritto – proseguiva il giudice di Agrigento nella sua motivazione del luglio 2019 – deve fare i conti con i limiti che lo Stato stesso si è imposto aderendo ai Trattati internazionali.

La decisione del giudice agrigentino veniva poi confermata dalla Cassazione nel gennaio 2020. Con motivazioni così stringenti per cui, nell’aprile 2021, la procura di Agrigento (che aveva inizialmente chiesto la convalida dell’arresto) non poteva far altro che chiedere e ottenere dal giudice l’archiviazione delle accuse di resistenza a pubblico ufficiale e di violenza contro nave da guerra.

Dunque, la partita sull’episodio 'speronamento' era già chiusa dall’aprile scorso. Rimaneva in piedi, contro Rackete, il procedimento per il reato di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», per cui si procedeva a piede libero e dunque con tempi diversi da quello per i reati per cui c’era stato l’arresto. Ma, evidentemente, dopo la decisione della Cassazione del gennaio 2020, anche il procedimento per «favoreggiamento» aveva il suono di una campana incrinata. La sua sorte era segnata. Se infatti la condotta di resistenza a pubblico ufficiale è stata esclusa perché l’atto era stato compiuto nell’«adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica», come si può pensare che il reato non sia esclusa anche per l’aver fatto approdare in un porto sicuro i naufraghi salvati in mare, condotta che avrebbe costituito l’essenza del presunto «favoreggiamento»?

Gli strepiti contro l’archiviazione di pochi giorni fa, dunque, non solo hanno un obiettivo sbagliato (perché, come si è visto, la decisione finale sul presunto atto di 'pirateria' fu presa nell’aprile scorso), ma confermano un’ormai antica abitudine: usare le decisioni dei giudici come mezzo di diatriba politica. Cosa che non fa bene né alla giustizia né alla politica. E troppe volte fa dimenticare l’umanità.

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