sabato 7 aprile 2012
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Caro direttore,
sono rimasta delusa dalla risposta che lei ha dato qualche tempo fa (Avvenire del 18 marzo) alla signora Giovanna C., maestra ex­pensionanda. Il mio dispiacere nasce dal fatto che, oltre alla legittima condivisione della delusione per le decisioni governative che hanno tarpato le aspirazioni personali, non ci sia stata una sua esauriente risposta alla domanda del perché di tali scelte, ma un sostanziale consenso sulla loro ingiustizia. Mi permetto perciò di integrare la sua risposta con alcune osservazioni.
Avere lavorato regolarmente 35 anni e andare in pensione col sistema retributivo prima dei 60 anni, quando la vita media di una donna è di circa 84 anni, vuol dire aver versato 100 e ricevere 140 di cui 40 dalla collettività. È evidente a tutti che questo sistema è stato sostenibile quando 100 lavoravano e 30 erano in pensione, ma da molti anni ormai il rapporto è rovesciato e questa è una fortuna. La grande responsabilità è invece di tutti i governi che, dal 1980 ad oggi, si sono rifiutati di affrontare il problema. La riforma Dini è stato un primo passo ma non sufficiente e oggi il 'macigno' ci è cascato addosso. Altro discorso è il caso delle donne: c’è stato in passato uno scambio "perverso".
Lo Stato ha scaricato su di noi e sulla famiglia il peso quasi totale dell’assistenza ai figli e agli anziani in cambio di uscite agevolate dal lavoro e pensioni anticipate o contando sul lavoro casalingo non riconosciuto. Oggi questa soluzione è stata abolita senza però proporne altre ed è su questo che dobbiamo alzare il dibattito e pretendere un intervento serio di questo governo che ha sicuramente le capacità tecniche e probabilmente anche la reale possibilità di trovare soluzioni nuove. Altro discorso ancora riguarda i lavori usuranti per il dispendio di energie emotive come insegnanti, infermieri ecc. o pericolosi per la collettività come piloti, autisti ecc., ma non è più sostenibile anticipare la pensione per questi lavoratori. Occorre fare in modo che sia possibile cambiare lavoro nel corso della vita anche in funzione delle caratteristiche della propria età. E questa è un’altra grande scommessa che questo governo deve affrontare modificando le regole ingessate del nostro mercato del lavoro.
Paola Castelli, Calice Ligure (Sv)
 
Mi spiace che alcune mie valutazioni su aspetti che giudico non equi della pur inevitabile riforma previdenziale varata d’urgenza dal governo Monti l’abbiano delusa, cara signora Castelli. Ma può capitare. La fabbrica delle delusioni, soprattutto di questi tempi, è sempre in piena attività... Anch’io non ne sono immune, ma devo dire che non ho trovato affatto deludenti diverse delle sue «osservazioni». Sebbene ce ne sia almeno una che faccio proprio fatica a capire: perché mai sarebbe «una fortuna» ritrovarci in un’Italia popolata (tendenzialmente) più da pensionati che da lavoratori? Mi pare (e non pare solo a me) piuttosto uno dei capitali problemi che stanno assillando il nostro sistema Paese. Ed è evidente che il dato, per quanto sommariamente abbozzato, contiene in sé una notizia buona – si vive più a lungo – e una pessima: si fanno troppo pochi figli per garantire un futuro equilibrato (o anche solo un futuro) all’Italia. Ma, forse, lei si è solo spiegata male. Mentre si è spiegata assai bene a proposito dell’idea di far cambiare lavoro, a una certa età o dopo un certo numero di anni, alle persone che svolgono attività usuranti come l’insegnamento, la guida di aerei o mezzi pesanti, il servizio nelle forze dell’ordine... Credo anch’io che si tratti di una prospettiva seria, di un modo per valorizzare, ancora e con intelligenza, energie e competenze mature e non più pensionabili in modo sostenibile. Facciamo qualche esempio? Un carabiniere o un agente che contribuisce alla custodia di musei o siti archeologici, un insegnante che coopera alla gestione di una biblioteca, un autista che garantisce corsi di educazione stradale a bambini e immigrati stranieri...
Detto questo, resto del mio parere. A costo di deluderla di nuovo. La necessità di intervenire rapidamente per evitare all’Italia un disastro finanziario 'alla greca' ha portato a scelte utili, ma non sempre giuste. Tant’è che si sta cercando di porre rimedio ad alcune situazioni più gravi, come il caso dei cosiddetti «esodati» (quelli che si sono convinti a lasciare il lavoro per andare in pensione e che si sono ritrovati senza l’uno né l’altra). Ma al problema 'che non si vede' (ma si sente) delle donne lavoratrici che si sono generosamente spese per decenni in doppi e onerosi impegni in casa e fuori di essa purtroppo non c’è risposta. Confermo che vale la pena di cercarla, anche nella direzione da lei indicata, anche con lo strumento del lavoro part-time, ma soprattutto con un realismo al tempo stesso riconoscente e lungimirante.
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