C'è un grande cantiere da aprire accanto alle donne e per loro
martedì 15 dicembre 2020

Una delle più grandi tentazioni di questi nostri difficili giorni è ritenere che l’unico argomento di cui valga veramente la pena parlare sia il virus e la narrazione che lo riguarda. È una tentazione potente, perché qualunque tema sembra sbiadire di fronte ai colori forti della pandemia, realtà imperiosa e materica che schiaccia, emargina e silenzia ogni discorso alternativo.

A questa tentazione, a questo rischio, dobbiamo sottrarci di slancio: perché dopo questo terribile 2020 ci aspettano anni di ricostruzione economica, ma anche culturale, morale, spirituale.

I segnali che la collettività emette ci raccontano di un’Italia ancora e sempre solidale, ma anche di un Paese che ha smarrito la strada, in cui una buona parte degli italiani e delle italiane persegue soprattutto personali interessi, in maniera non necessariamente legale, senza curarsi minimamente di valori guida come il Bene collettivo, la correttezza, il rispetto della dignità di ognuno.

Al di là dell’impegno e della buona volontà dei singoli a migliorarsi (che resta sempre una stella polare), il punto vero è la questione dei “cantieri” da aprire. Sì, certo, i cantieri per ricostruire strade, ponti, ferrovie. Ma anche “cantieri” che permettano la ricostruzione di una cultura frammentata, di un immaginario svilito, impoverito oltre ogni misura da una narrazione mediatica intrisa di violenza, aggressività, prepotenza. Un mondo immaginario che si è impossessato delle menti di tanti, troppi, che queste menti ha colonizzato, lasciando in loro un deserto di disumanità, come dopo il passaggio delle bibliche cavallette. In queste condizioni non si va da nessuna parte, per quanti miliardi di euro ci possano arrivare.

Se non si mette mano, senza dirigismi, ma con pazienza, costanza e determinazione, alla ricostruzione di una cultura collettiva che ponga al centro la dignità della persona, di tutte le persone che sono fine e mai mezzo, mai oggetto, mai strumento, mai materia e null’altro. Ma come può avvenire tutto ciò se la metà del Paese, costituita dalle donne, viene schiaffeggiata tutti i giorni da una rappresentazione mediatica che le riduce a oggetti da usare e abusare, se perfino nelle trasmissioni del pomeriggio televisivo vanno in onda tutorial che insegnano alle donne ad aggirarsi tra gli scaffali di un supermercato in maniera provocante, assumendo mossette da avanspettacolo? Sono queste le donne? O non sono piuttosto le migliaia di dottoresse, infermiere, anestesiste che in questi mesi terribili ci curano e ci salvano con “supremo sprezzo del pericolo”, come si diceva una volta degli eroi di guerra? O le fantastiche donne imprenditrici che provano a rilanciare al Sud l’economia del Paese?

Sono solo due esempi, che ci dicono però che l’Italia ha bisogno di una nuova narrazione sul ruolo sociale della donna. In questo la Rai, il servizio pubblico televisivo ha oggettivamente un ruolo e una mission entusiasmante: è l’attore principale, senza dubbio, perché non si può pretendere che sia la televisione commerciale ad assumersi questo ruolo. Su questo tema sono state fatte battaglie civili, vorrei ricordare l’impegno di Appello Donne e Media (che prendeva il nome da un Appello, appunto, firmato da numerosissime associazioni di donne al Presidente della Repubblica) che ha portato a una specifica riforma nel Contratto di Servizio Stato-Rai in vigore dal 2011, rafforzata dal Contratto 2018-22.

Un appello che apriva un cantiere che prevedeva una nuova e più realistica rappresentazione delle donne, anche attraverso un Piano formativo di sensibilizzazione di quelli che l’immaginario lo costruiscono e lo veicolano: programmisti, sceneggiatori, registi televisivi, giornalisti, operatori. Che prevedeva, tra l’altro, programmi in grado di valorizzare, informando e intrattenendo, i talenti molteplici delle donne, che non sono solo moda e cosmetici, ma ricerca scientifica, economia, professioni della medicina e della giurisprudenza, imprenditoria e arti, nuove tecnologie e giornalismo.

Si riprendano in mano quelle idee e quelle riforme, si facciano diventare piani di formazione e di produzione di programmi, narrazione e rappresentazione, in cui delle donne si evidenzino le competenze, la professionalità, una nuova capacità di leadership, più umana ed empatica, dunque vita vera e significativa. Lo dobbiamo ai nostri figli e alle nostre figlie.

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