giovedì 17 agosto 2017
Burkina Faso, la convivenza nel mirino del terrorismo
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Gentile direttore, le scrivo da Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, dopo essere scampato – per la buona sorte di essere uscito dal locale pochi (forse 5) minuti prima – al massacro nel ristorante turco “Aziz” che domenica sera ha fatto 18 morti. Frequento questa terra africana da 30 anni per progetti di cooperazione che hanno la sovranità alimentare come stella polare di ogni scelta, che mettono le donne al centro delle azioni che vogliano tradursi in progresso sociale e umano. Non è per la mia vicenda personale che chiedo ospitalità nelle vostre pagine.

Sollecito ascolto per un Paese, il cui nome significa “Terra degli uomini integri”; chiedo più attenzione per la sua popolazione, composta da una sessantina di etnie diverse (ognuna ha un suo idioma) intrecciate con tre diverse religioni (animista, islamica, cristiana); una popolazione la cui pacifica convivenza costituisce un esempio nella storia del continente e, forse proprio per questo, non è funzionale alle strategie terroristiche che acquistano forza dalle contrapposizioni, anche etniche. Questo Paese, dove si sopravvive con 630 dollari l’anno di reddito medio annuo pro capite, è ancora un esempio di come la convivenza pacifica tra diverse identità e culture possa diventare pratica quotidiana per più di 18 milioni di persone, sparse su 274mila chilometri quadrati.

Qui la convivenza tra persone e gruppi di diverse tradizioni è cultura, e pratica quotidiana nelle attività di ogni genere, perché il principio guida delle comunità è la partecipazione attiva alla vita pubblica, molto più di quella di appartenenza etnica e/o religiosa. Un processo che ha acquisito ancora più vigore dopo i cambiamenti iniziati nell’autunno del 2014 con i movimenti popolari che hanno deposto il presidente Blaise Compaore, al potere da 27 anni; che durante il governo di transizione ha sostenuto il peso d’un tentativo di colpo di stato e infine è approdato alle elezione di fine 2015 del nuovo presidente Roch Marc Christian Kaboré.

Insieme alle questioni “interne”, quindi, diventa fondamentale uno sguardo non superficiale sul Burkina Faso per i motivi geo-politici citati da Roberto Zuccolini della Comunità di Sant’Egidio (nel suo blog nell’“Huffington post”): «Il Burkina Faso, anche se pochi lo conoscono qui in Italia, non è un Paese così lontano come si pensa. Nel senso che è uno Stato strategico nella lotta al terrorismo insieme a Mali, Niger e Nigeria. È ormai questa, la fascia subsahariana, non più il Mediterraneo, la frontiera dell’Europa, come dimostrano anche le vicende dei flussi migratori. È lì che l’Europa deve intervenire, aiutare, rafforzare l’impegno a favore della pace».

Piero Sunzini

direttore di Tamat


Grazie della sua testimonianza, gentile dottor Sunzini. E del tenace impegno suo e della Ong con base a Perugia della quale è direttore e co-fondatore. Sottolineo quanto sia importante che il Sahel – e in particolare il Burkina Faso – non venga riconosciuto da noi europei soltanto come “frontiera”, bensì anche e soprattutto come “laboratorio”, cioè come campo più che mai aperto non solo a esemplari pratiche di civile convivenza, ma anche a concreti processi di sviluppo sostenibile. (mt)

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