Bucare il velo dell’ipocrisia
venerdì 13 ottobre 2023

L’urlo di dolore di Israele è risuonato in tutto il mondo e la condanna per l’aggressione di Hamas è stata larga e trasversale. La trepidazione per la sorte degli ostaggi è diffusa come pure una profonda spinta alla solidarietà. Tutto ciò è importante e positivo. Ora però c’è grande incertezza su come rispondere a quanto è accaduto. Molte analisi in queste ore hanno ricostruito la situazione creata da settantacinque anni di conflitti. I recenti sviluppi legati agli accordi di Abramo hanno messo in crescente difficoltà la causa palestinese, che tutti sembrano aver abbandonato. L’attacco di Hamas ha avuto una carica non solo distruttiva ma anche autodistruttiva. Non ha solo colpito ferocemente Israele, ma ha anche messo in grave pericolo la popolazione civile di Gaza e posto le premesse per un peggioramento della condizione di tutti i palestinesi. Più che proporsi obiettivi realizzabili questa violenza sembra un modo di comunicare. O, meglio, di affermare sé stessi nella forma più brutale e clamorosa possibile. Si è molto parlato di fondamentalismo islamico e di teocrazia iraniana.

Ma, come dice un proverbio arabo, siamo tutti figli del nostro tempo più che dei nostri padri. Anche l’aggressione di Putin all’Ucraina ha colto il mondo di sorpresa, sebbene i suoi preparativi fossero noti da tempo: sembrava impossibile perché non era nell’interesse suo o della Russia. Putin non ha mai indicato obiettivi chiari e definiti e l’elemento dominante della sua retorica è sconvolgere l’ordine occidentale. A causa della guerra, la Russia è diventata più debole, povera e dipendente, ma ha proiettato nel mondo l’immagine di quella grande potenza che non è più.

Molte discussioni di questi giorni sulla differenza tra terrorismo e guerra e sul confine tra violenza legittima e illegittima appaiono obsolete: il tempo della comunicazione planetaria è un tempo di un bullismo abnorme, raccapricciante, tragico. L’aggressione di Hamas ha rappresentato un salto di qualità e nulla può essere più come prima. Da tempo la politica di Israele è sembrata rassegnata a convivere con l’insicurezza. Moshe Dayan diceva: «Dobbiamo essere percepiti dal nemico come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato». Neanche questa forma estrema di deterrenza, però, basta davanti una violenza distruttiva e autodistruttiva. Ma pure i tentativi di accordo tra israeliani e palestinesi non hanno raggiunto l’obiettivo. E dunque? L’attacco di Hamas è stato paragonato all’attentato alle Torri Gemelle: sabato 7 ottobre 2023 sarebbe stato l’11 settembre di Israele. C’è da augurarsi che non sia così: dopo quell’attentato, gli Stati Uniti hanno intrapreso due guerre sbagliate, in Iraq e in Afghanistan, che non hanno migliorato il mondo e li hanno fortemente indeboliti.

Ma anche invitare Israele alla prudenza nella tranquillità delle nostre case suona poco credibile. Bisogna pensare l’impensato. Si impongono scelte radicali, non nel senso di una violenza smisurata ma in quello di obiettivi massimi. Parlando di Terza guerra mondiale a pezzi Papa Francesco ha da tempo richiamato l’attenzione sulla novità della violenza nel XXI secolo. E dopo l’aggressione di Hamas il cardinale Pietro Parolin ha denunciato con toni accorati la crisi del multilateralismo. La sicurezza di Israele - come quella dell’Ucraina, dell’Armenia, di tanti Paesi africani… - può essere assicurata solo da un nuovo ordine mondiale. Se gli accordi di Oslo del 1993 non hanno portato alla pace è anche perché israeliani e palestinesi sono stati lasciati soli: come tra Russia e Ucraina, l’obiettivo della pace non può essere affidato solo ai due belligeranti.

Stati Uniti ed Europa squarcino il velo della loro ipocrisia e prendano un’iniziativa forte perché simili violenze non si ripetano più. Ma non da soli. Il 14 giugno scorso, incontrando Abu Mazen, Xi Jinping ha sostanzialmente rilanciato l’Accordo di Oslo tra Rabin e Arafat favorito dai norvegesi e sostenuto dagli americani. Israele ha espresso insoddisfazione per la reazione cinese all’aggressione di Hamas, ma nei mesi scorsi Pechino ha propiziato un riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita e il suo ruolo può avere un’utilità. È solo un esempio. Non basta, infatti, pensare in termini di cessate il fuoco e non c’è solo bisogno di mediatori: occorrono architetti di pace. Pensare l’impensato significa coinvolgere tutti gli attori che contano in Medio Oriente e nel mondo per garantire insieme la sicurezza di Israele e le ragioni non di Hamas ma dei palestinesi.

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